• Titolo: La peste invocata da David
  • Autore: Filippo Daelli
  • Data: 1786 (I premio)
  • Tecnica: Olio su tela
  • Dimensioni: cm 153 x 101
  • Provenienza: Parma, Accademia di Belle Arti
  • Inventario: Inv. 20
  • Genere: Pittura
  • Museo: Galleria Nazionale
  • Sezione espositiva: L'Accademia

Il dipinto, eseguito su un’unica tavola, è esposto attualmente senza cornice. In alcune vecchie fotografie appare inserito in un tabernacolo goticheggiante risalente con ogni probabilità al Tacoli Canacci (per le affinità che dimostra con le cornici di altre opere passate per le mani del marchese); fu eliminato con un restauro nell’immediato dopoguerra (cfr. Quintavalle 1948a).
Oltre alla parte dipinta il supporto comprende una fascia in basso (dove poteva trovar posto un ulteriore listello decorato con serafini o una predella) e un’alta superficie centinata nella parte superiore che doveva essere coperta da un importante coronamento cuspidato, forse comprendente altre parti dipinte.

Il pittore milanese però non seguì il consiglio degli Accademici, dando vita a una composizione originale. Strutturato in verticale, il dipinto risulta bipartito dalle alte colonne di un loggiato aperto, intorno al quale Daelli orchestra il racconto in modo sintetico, concentrandosi su pochi personaggi accuratamente studiati. Si tratta di figure composte, isolate le une dalle altre, chiuse in gesti eloquenti che ben sottolineano, in unione col cielo livido e plumbeo dello sfondo, l’atmosfera funerea e cupa della scena.

Daelli si dimostra qui sapiente regista di quella retorica degli “affetti” che, unita all’abilità di cui dà prova nella descrizione delle figure e, in particolare, delle anatomie dei corpi nudi, testimoniano la sua solida preparazione accademica. Il pittore infatti, dopo una prima formazione alla Scuola di Carlo Maria Giudici (1723-1804), seguì dal 1776 al 1779 il corso di Pittura e della scuola di Nudo dell’Accademia di Brera (Catalogo degli allievi 1776-1800). Studi recenti hanno sottolineato come questa Istituzione, fin dalla sua nascita (1776), attribuisse un ruolo fondamentale allo studio del nudo, sia dal vero sia dai modelli di grandi maestri, per la formazione dei giovani pittori. Già nel 1778 essa possedeva infatti Accademie di Nudo di artisti quali Corvi, Batoni, Mengs, von Maron, su cui gli studenti dovevano esercitarsi (Susinno 1998-99, pp. 173-189; Valli 1998-99, pp. 190-197). Forte di quanto appreso, Daelli si era poi trasferito a Roma per completare la propria istruzione sotto la guida di Anton von Maron, come testimoniato dagli Atti dei Concorsi dell’Accademia di Parma (Pellegri 1988, p. 223).

Degli anni romani si conserva, negli Archivi dell’Accademia di San Luca, un disegno di Nudo che gli valse il primo premio nella terza classe di Ornato del marzo 1782 (inv. B 338). Il rapporto con von Maron porta l’artista a definire la strutturazione sobria e rigorosa di questa tela, che la colloca di diritto fra le opere accademiche degli Anni ottanta del XVIII secolo, “tutte indirizzate, sul recente esempio di David, a una rilettura del classicismo austero e morale di Poussin” (Riccomini 1979b, p. 9). Un’ispirazione precisa alla Peste di Azoth del grande pittore francese si può cogliere nella figura della giovane madre morta vestita di rosso, che Daelli intelligentemente rielabora secondo la tradizionale iconografia della Carità, amplificando l’impatto emotivo e il potenziale drammatico del soggetto.

Il senso di tragedia è accentuato sia dal contrasto cromatico fra le carni vive, il bianco dei lenzuoli, i rossi, i blu delle vesti e l’incarnato livido e grigio dei cadaveri, sia dall’abile disposizione dei lumi, anch’essa retaggio della formazione lombarda, che, lasciando in ombra i volti dei cadaveri, ne enfatizza il bianco degli occhi sbarrati. Questi elementi hanno fatto parlare di preludio a una “sorta di tragico romanticismo storico” (Cirillo – Godi 1979d, p. 35).
La pennellata di Daelli è corposa, sa descrivere le figure in modo dettagliato, insistendo sulla loro anatomia o avvolgendole in ampi drappeggi, e farsi quasi compendiaria nella definizione di particolari più lontani. Lo stesso tocco veloce torna nei volti, dove barbe, chiome e rughe sono sottolineate da lumeggiature bianche. Ai giudici piacquero soprattutto “il vigoroso colorito… la patetica espressione [che]… invita alle lagrime… il robusto Sotterratore di Cadaveri… barbuto e squallido” (Pellegri 1988, p. 223). Del quadro, unico dipinto noto di questo artista, esiste una replica in collezione privata a Salsomaggiore (Cirillo 1995, p. 57).

I Carteggi dell’Accademia conservano inoltre una lettera, non datata, in cui l’artista raccomanda la sua opera ai giudici (Carteggio 1763-1786, lettera n. 8). Non siamo però certi trattarsi di quella che accompagnava questo quadro. È infatti possibile, sulla base di una nota contenuta in una minuta (Documentazione…, cart. 28, n. 207), dove Daelli viene erroneamente citato come vincitore della seconda corona per il 1785, che l’artista abbia partecipato anche alla competizione dell’anno precedente, riportando giudizi positivi pur senza essere premiato. (M.C.)

Bibliografia
Martini 1872, p. 20;
Martini 1875, p. 2;
Pigorini 1887, p. 2;
Ricci 1894, p. 4;
Ricci 1896, p. 8;
Godi 1974, p. XXVII;
Cirillo – Godi 1979d, pp. 35-36;
Riccomini 1979b, p. 9;
Pellegri 1988, p. 223;
Cirillo 1995, p. 57