“È tanto il merito e così singolare la virtù nell’arte sua dell’insigne pittore Cavaliere Pietro Tempesta che il Serenissimo Sig. Duca Nostro Padre hebbe occasione di conoscerlo e l’abbiamo Noi ancora nella degna memoria da lui lasciata dell’eccellente suo pennello nella nostra città di Piacenza, onde come piacque all’A.S. di palesare la stima che di lui faceva ed dichiararlo suo servitore domestico e famigliare, così vogliamo farlo noi ancora” (Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Documenti… VI, f. 2862).

Così scriveva il duca Francesco Farnese nel marzo del 1694 riprendendo una dichiarazione già rilasciata, con minime varianti, l’anno precedente. Pur concedendo alle esigenze del formulario il linguaggio enfatico quanto stereotipo, è indubbio che la scrittura ducale rappresenti una lusinghiera nota di accredito per il pittore olandese, testimoniando il prestigio di cui dovette godere anche in terra d’Emilia e soprattutto provando un rapporto diretto e, a quanto pare, privilegiato con la corte farnesiana. Il riferimento all’avvenuta conoscenza di Ranuccio II, padre di Francesco, conferma la cronologia acquisita del soggiorno nel ducato dell’artista.

Il viaggio in Italia, destinato a trasformarsi in una permanenza definitiva, portò il Mulier a Parma nei primi mesi del 1687, durante quel lungo periodo lombardo (1684-1701), non privo di frequenti spostamenti, che conclude la quarantennale, e davvero prolifica, attività dell’artista in Italia. Un soggiorno breve quello parmense, senz’altro comprensivo di una parentesi piacentina e puntualmente documentato nei suoi estremi cronologici dall’interessantissimo carteggio dell’artista pubblicato dal Roethlisberger (1970, pp. 64-79). È del novembre del 1686 una reiterata richiesta di referenze per Parma al suo grande “patron” degli anni milanesi, il conte Vitaliano Borromeo, mentre data al marzo del 1687 una lunga lettera da Venezia a Giovanni Maria Arcioni, abate del convento parmense di San Giovanni Evangelista, in cui il Tempesta lascia intendere come recente la sua partenza da Parma (ibidem, p. 78). Nella lettera Mulier manifesta di aver conosciuto il Brescianino e riferisce di un rapporto epistolare con Giovan Battista Merano, certamente incontrato nel convento benedettino di San Giovanni, che vedeva l’artista genovese impegnato in quei mesi alla grande tela di controfacciata.

Ma l’interesse che il documento riveste, pur nel “pessimo stile e rara scorrezione” come ebbe a scrivere il Campori (1855, p. 319), va oltre quello specifico per il soggiorno parmense. Interessanti risultano le allusioni ai modi di operare e di gestire i rapporti con la committenza da parte di un pittore quale il Tempesta, senz’altro favorito dal crescente interesse collezionistico per i “generi”, ma anche obbligato a confrontarsi con le nuove esigenze del mercato. Ormai solido e diffuso, questo richiedeva all’artista uno sforzo di autopromozione senz’altro maggiore di quanto non fosse necessario ai tempi del collezionismo aulico e del grande mecenatismo principesco (selettivo, certo, ma anche tutelante). Ecco allora la dichiarata ricerca da parte del Mulier di “piazze favorevoli” “…venuto in q.ta Città (Venezia) perché di Pittori di figure ce ne asai, ma di Paesi marine e animaletti non ci è…”; ecco la preoccupazione, seppure mascherata da offerta di servigi, di mantenere produttivi i rapporti intrapresi a Parma “… e se io da qua posso servire V.S.M.R. e quel Cavagliero bovj o altri… prego onorarmi dei suoi Commandi…” (ibidem, p. 78).

Qualche considerazione, seppure a margine, merita anche il rapporto con l’abate Arcioni, il cui ruolo all’interno del collezionismo parmense del tardo ’600 andrebbe approfondito. Il suo profilo di uomo di lettere, poeta e accademico, ma anche di “buon giudice in pittura, scultura ed architettura” (Janelli 1877, pp. 21-22), calza bene con quella figura di letterato-mecenate, conoscitore d’arte e mediatore, prima ancora che collezionista, che va definendosi nel corso del secolo e a cui gli artisti affidano, più volentieri che ai mercanti, la propria immagine.

È probabile che proprio all’Arcioni fossero indirizzate le referenze scritte dal Borromeo e che l’abate sia stato il tramite delle commissioni parmensi del Tempesta.

Di quelle farnesiane resta un unico riscontro certo nel catalogo fino ad oggi acquisito dell’artista: la Burrasca del Museo Civico di Piacenza, peraltro recentemente confermata al Mulier dopo un’attribuzione incerta al Brescianino (Arisi 1960, pp. 307-308 e Pronti 1997b, scheda n. 30, pp. 205-206). Del resto – e quasi a contraddire la dichiarazione ducale – assente è il nome del Tempesta negli inventari farnesiani relativi al nucleo collezionistico piacentino, mentre tre dipinti del pittore olandese vengono registrati, seppure tardivamente, nelle collezioni ducali parmensi: un San Franco nel deserto e due Paesi con figure compaiono infatti negli appartamenti farnesiani di Colorno nel 1734 (Bertini 1987, p. 291, nn. 5, 12-13), rimanendone tuttavia sconosciuto il destino.

Ma le occasioni di lavoro per il Tempesta a Parma non si limitarono certo a quelle offerte dalla Corte. L’artista si trovò senz’altro a soddisfare una committenza privata che, qui come altrove, si mostrava intraprendente e ormai capace di concorrere con un mecenatismo pubblico peraltro esaurito nella sua forza propulsiva. In assenza di precisi riferimenti documentari e a fronte della dispersione di numerosi nuclei collezionistici, è difficile ricostruire l’attività parmense del Tempesta e i suoi rapporti con la committenza locale. Ripercorrendo gli inventari delle antiche quadrerie nobiliari capita di incontrare il nome dell’artista: nell’elenco del 1751 relativo alla raccolta Pallavicino, eredità del marchese Alessandro (Aimi 1976; Cirillo – Godi 1988), sono addirittura sedici i dipinti registrati con il nome di Tempesta. Pur ammettendo qualche errore o forzatura attributiva, si tratta di una presenza davvero cospicua e significativa, all’interno di una quadreria non a caso fortemente caratterizzata, testimonianza esemplare di come l’interesse collezionistico fosse andato polarizzandosi intorno a una pittura di genere ad alto contenuto decorativo. Come e quando i dipinti del Tempesta siano entrati nella collezione non è dato di sapere e l’ipotesi, pur suggestiva, di una commissione diretta e di un rapporto privilegiato del Mulier con i Pallavicino rimane naturalmente tutta da dimostrare. Dei sedici quadri – come peraltro dell’intera collezione  – si sono comunque perse le tracce anche se quel Cristo al lido coi discepoli naviganti, citato nell’inventario in una serie di quattro quadri grandi bislunghi a soggetto sacro, potrebbe essere identificato con il Cristo che intercede per gli Apostoli oggi appartenente, insieme a quattro paesaggi sempre del Tempesta, alla Pinacoteca Stuard di Parma (Cirillo – Godi 1987; Barocelli 1996).

A suggerire, e questa volta con forza, il nome di un probabile committente locale del Mulier sono proprio i quattro dipinti ora alla Galleria Nazionale, gli unici di quelli conservati a Parma – oltre ai cinque citati della Stuard anche una Burrasca in collezione privata (Consigli – Consigli 1990) – di cui è noto l’itinerario collezionistico.

Le tele provengono dalla collezione Sanvitale e sono senz’altro da identificarsi nei quattro quadri del Tempesta citati in un elenco di acquisti fatti dal conte Carlo a una data imprecisata ma certamente compresa fra il 1710 post e il 1717 ante (nell’inventario della quadreria Sanvitale redatto nel 1710 dall’Orlandi esse non compaiono mentre il termine ante quem si ricava dalla data di morte del pittore Giacomo Maria Giovannini incaricato della perizia). Una nota posta in calce all’elenco e ascrivibile a Scarabelli Zunti – cui senz’altro si deve il recupero documentario – riferisce che i dipinti furono venduti al Sanvitale da Andrea Boscoli, nipote di quel Giovanni Simone che fu proprietario di una delle più importanti collezioni parmensi, divisa fra gli eredi nel 1690.

I dipinti non trovano un riscontro certo nell’inventario della quadreria steso proprio in occasione della spartizione e pubblicato dal Campori (1870, pp. 377-407), sebbene Quattro paesi citati come opere del Fiammingo (ibidem, p. 399) potrebbero corrispondere a quelli del Tempesta anche per la coincidenza delle misure. Resta comunque più che probabile che l’acquisizione in casa Boscoli delle quattro tele sia avvenuta attraverso una commissione diretta al Mulier nei mesi del suo soggiorno a Parma nel 1687. Forse è proprio Giovanni Boscoli quel “…Cavaglieri bosi o bovi non so giusto…” che il Tempesta manda a salutare nella lettera all’Arcioni e che si intende essere stato un suo estimatore e acquirente parmense.

Le considerazioni stilistiche, spesso probanti nei confronti di un’ipotesi cronologica, non si rivelano in questo caso utili né la definizione risulta del resto significativa in una produzione quale è quella del Tempesta, sostanzialmente statica e intenzionalmente fedele a se stessa.

I due dipinti in esame confermano la fondamentale matrice classica e prearcadica del paesaggismo del Mulier, che, dopo le prime prove olandesi nei modi di Berchem e di Molijn, sceglie di modellarsi sui grandi esempi romani di Lorrain e Dughet in particolare. Il libero scenario naturale si compone entro uno schema solido, sapientemente calibrato nella distribuzione degli elementi, ma non privo di qualche forzatura romantica alla Salvator Rosa (ma anche alla Dughet dell’ultimo periodo): le diagonali tortuose degli alberi, il tronco spezzato e colpito dalla luce nel primo, così come il gioco drammatico delle nubi nel secondo. E ancora, in entrambi, la materia pittorica fatta di pennellate dense e disinvolte, ricca di contrasti e così lontana dalla stesura compatta, per velature e trasparenze, propria della tradizione olandese.

Del resto anche l’acuto realismo nordico, che pure doveva appartenere alla formazione del Tempesta, scompare quasi del tutto in questi paesaggi fittizi e teatrali che trovano proprio nella qualità decorativa della finzione, oltre che nell’eccellenza tecnica, le ragioni di un facile consenso. Ma anche quelle dell’importante contributo del Tempesta allo sviluppo del genere paesaggistico in Italia: in fondo la scelta della formula a scapito di un rapporto immediato con la natura, la proposta di un paesaggio tout court che esclude ogni contenuto storico o filosofico aprono, pur rischiando la superficialità, agli esiti rococò di primo ’700, alla pittura di Marco Ricci, di Locatelli e di Zuccarelli in particolare.

I due dipinti furono evidentemente concepiti in coppia, nella prospettiva di una collocazione simmetrica o opposta sul muro, secondo un modo di procedere ricorrente nella produzione del Tempesta (e che già era stato, per altro, di Poussin e Lorrain). Il progettare per coppie significava stabilire uno stretto legame di reciprocità anche compositiva fra i dipinti, che qui si manifesta innanzitutto attraverso il contrasto dei tagli scenici adottati. Da una parte l’interno di un bosco con i consueti pastori a riposo e gli animali che si ristorano presso una cascata: un’immagine chiusa, satura di forme, nella quale la visione dell’orizzonte chiaro, cui conduce il sentiero al centro, è bloccata dalle masse del terreno e del fitto fogliame degli alberi. Dall’altra parte, viceversa, la veduta aperta di un’ampia valle, che, fra due quinte, l’una arborea e l’altra architettonica, si dilata per piani successivi fino all’orizzonte, sotto un cielo livido di nubi – ma con ancora ampi tratti di azzurro intenso – che rivela l’imminenza del temporale. Un tema quest’ultimo largamente frequentato dal Tempesta, quasi un artificio che gli consente un felice gioco di contrasti atmosferici e cromatici, nel quale i caldi e pacati toni giallo-verdi del paesaggio si contrappongono a quelli freddi e intensi grigio-blu del cielo incombente. Se consueto è il tema, decisamente inusitato è il taglio scenico: sono rare nel paesaggismo del Mulier, in genere propenso a immagini di forte densità compositiva, vedute di così ampio respiro quale è questa parmense, certamente una delle prove migliori del pittore olandese.

Bibliografia
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Restauri
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1997 (Zamboni e Melloni)
Mostre
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Ancona 1997
Scheda di Rossella Cattani, tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Seicento, Franco Maria Ricci, Milano, 1999.