- Titolo: Interno di cucina con pentole di rame
- Autore: Giovan Domenico Valentino
- Data:
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 37 x 47
- Provenienza: Berlino, mercato antiquario, 1971
- Inventario: GN 1978
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
“…la cucina nondimeno mi parve meravigliosa: la quale così pulita ritrovai come che sogliono essere le camere de le novelle spose; e vidi in lei tanta moltitudine d’instrumenti necessari non sol per uso proprio, ma de la mensa eziandio, e con sì discreto ordine compartiti, e con tanta proporzione l’uno dopo l’altro acconcio, o contro l’altro collocato, e così il ferro netto da la ruggine risplendeva al sole, che per alcune fenestre di bellissimo vetro purissimo vi entrava, che mi parve di poter rassomigliarla a l’armeria de’ Veneziani o degli altri prencipi che a’ forestieri sogliono esser dimostrate” (Torquato Tasso, Il padre di famiglia, in Flora 1935, pp. 128-129).
La cucina come centro motore della vita, attiva (cfr. Veca, in Evaristo Baschenis… 1996, pp. 21-26) ma anche affettiva, della famiglia (chi di noi non l’ha mai provato nella propria o nell’altrui casa?), scenario che impagina il quotidiano dandogli ordine e misura d’eternità, nelle poche righe di Tasso come nelle due piccole tele mantiene tutto il calore della vita sospesa, delle persone che fino a un attimo fa l’hanno abitata e riempita. Una situazione di precarietà e di relativo disordine che definisce la vita, e rifugge dal vuoto ordinato che sa di morte. Dunque, come su un palcoscenico sul quale stanno per arrivare gli attori, prima che il sipario si alzi, la tovaglia è ancora appoggiata malamente all’angolo del tavolo ovvero stesa sulla tavola semiapparecchiata, i rami e gli utensili appena lavati e lasciati ad asciugare brillano complici alla luce che proviene da una finestra che non vediamo ma che potrebbe essere di vetro purissimo anche questa per quanto limpida è la luminosità che ne filtra; i piatti possono giacere abbandonati nel lavello, la zucca tagliata sul tavolo vicino al fiasco impagliato del vino, il pane sporgere dal canestro posato sul barile: non è abbandono, né disordine, presto qualcuno rientrerà a riprendere le faccende…
La fragilità delle cose e insieme la loro eternità, la sacralità del quotidiano declinata in un registro basso, feriale che avrà qualche importanza credo sugli esiti di Carlo Magini – come lucidamente intuiva la Ghidiglia Quintavalle – presentando entrambi, quindi inserendoli in qualche modo in una linea di continuità, alla mostra parmense, dedicata a Cristoforo Munari (già illuminato da Giuliano Briganti nel 1954) del 1964, lo stesso anno della grande mostra sulla Natura morta italiana di Napoli a cura di Stefano Bottari, tutta guidata da un’ideale ricerca sui “pittori della realtà”. Sullo sfondo di questo rinnovato interesse sta dunque ancora il “gran maestro” Roberto Longhi: l’individuazione estetico-critica di una “pittura della realtà” (appassionatamente condivisa da Testori) in area lombarda, le pagine memorabili dedicate alla Fiscella di Caravaggio e il riconoscimento (“ritratti di strumenti”) all’opera di Baschenis.
Un’interpretazione “alta” del genere, parallela e come in controparte a quella di Sterling (1952) che legge la pratica dello still life, filo rosso ininterrotto dalla classicità alla contemporaneità, in chiave di pura dimostrazione di abilità artistica, entro la categoria de l’art pour l’art insomma, con l’occhio di chi ha dentro Chardin, Courbet, Cézanne e Morandi… Erano anche anni in cui molto si parlava di una precipuità, di forte valenza realistica (per un riepilogo della questione cfr. Benati, in Cristoforo Munari…1999, pp. 39-44), della natura morta emiliana: a partire dagli studi di Arcangeli (1961) sul fratello del Guercino, Paolo Antonio Barbieri, di Riccomini (1961) su Pier Francesco Cittadini, la misteriosa personalità del cosiddetto “pittore di Rodolfo Lodi”, Arcangelo Resani (Volpe 1963), Giuseppe Maria Crespi (ancora Arcangeli 1962, ma per tutti grandissimo), quindi ultimo, ma non ultimo, Magini.
Una lettura certo fortemente suggestionata dalla poetica arcangeliana, giocata sul versante di natura ed espressione, e ovviamente adatta a interpretare e selezionare nel mare magnum degli specialismi quei fenomeni di prosa pittorica padana che più parlavano al loro cuore di studiosi.
Oggi lo studio filologico e specializzato è enormemente progredito sulla strada della, peraltro indispensabile, identificazione delle identità e dei cataloghi, ma forse qualcosa abbiamo perso rispetto a quegli anni di scoperta di dibattito e di ricerca, soprattutto di “senso”, se – come credo – oggi nessuno oserebbe proporre una mostra a così ampia diacronia, così orgogliosamente “interpretativa” come quella parmense del 1964. Proprio in quella sede fu presentato un gruppo di opere intorno al quale raccogliere l’identificazione di un enigmatico artista convenzionalmente definito “monogrammista G.D.V”. Ad oggi, grazie a indagini documentarie e al ritrovamento di poche opere firmate per esteso (Chiarini 1974; Corbara 1975; Papetti 1986), l’enigma risulta sciolto, e il Valentino si identifica pittore di origini romane, documentato attivo negli ultimi decenni del ’600, a Imola.
Confermando così che qualche volta la storia rende merito all’occhio che guarda, e insieme riconoscendo la dimensione “emiliana” della sua pittura, che la Ghidiglia vedeva. E che certamente c’è, anche se non in termini rigidamente anagrafici e pur se risulta difficile comprenderne tramiti e interferenze (tuttavia è più probabile che sia stato lui a influire su Boselli e Munari che non il contrario), poiché poco o nulla si conosce della sua formazione, che potrebbe derivare la particolare preferenza per la suppellettile “povera” dalla romana cultura “bambocciante”, così come mi pare si possa sottolineare la derivazione fiamminga, i cui specialisti aveva certo conosciuto a Roma, della dimensione piccola, quasi “miniaturizzata” ma estremamente lucida, di un linguaggio che privilegia gli ambienti chiusi, le cucine e gli studi di alchimista, entrambi luoghi di “trasformazione” cui solo il padrone e l’aiutante possono assistere, vietata a noi profani che ci affacciamo indiscreti, dove i rami e gli alambicchi splendono e si prestano dunque allo studio e alla resa illusionistica degli effetti di luce sul fondo scuro.
Mi pare non si possa inoltre dimenticare, per la comprensione delle nostre tele, cui le misure identiche e l’analogia tematica danno il sapore di un pendant, che erano destinate, lo rivela il piccolo formato stesso (ma si veda, per un parallelo col “fare grande” del Valentino, il pendant proposto in Cristoforo Munari… 1999, pp. 196-197), a un mercato provinciale, probabilmente di modesta condizione, certo devotamente e piamente probo e virtuoso, desideroso di rispecchiare e proiettare sugli ambienti domestici la propria quotidiana serenità, fors’anche per ricavarne sicurezza, e quelle certezze che il tempo storico non offriva.