- Titolo: Interno della Farmacia di San Giovanni
- Autore: Luigi Marchesi
- Data: tra il 1857 e il 1860
- Tecnica: Olio su tavola
- Dimensioni: 43,5 x 38
- Provenienza: acquistato da Carolina Buathier de Mongeot, vedova Marchesi, nel 1876
- Inventario: Inv. 765
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
Negli stessi ambienti del monastero di San Giovanni Evangelista, Marchesi trova fonte di ripetuta ispirazione nei locali dell’Antica Farmacia, al tempo ancora aperta al pubblico e pienamente operativa.
Due opere dello stesso soggetto infatti si trovano presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino (inv. 323 e 497), acquistati dopo essere stati esposti alla mostra della Società Promotrice delle Belle Arti di quella città, sempre particolarmente aperta e attenta alle prove del nostro pittore. In questo contesto sembra accettabile per la nostra una datazione fra il 1857 della Sagrestia e il 1860 della prima opera torinese. Un commosso sentimento del passato che supera ogni manierato medievalismo così come nella letteratura, lo annotava Emilio Cecchi (1960, p. 135): “il medioevo rozzamente romantico ed esteriore di un Guerrazzi o di un D’Azeglio, si muta in poesia vera nel Carducci o nell’Abba”, emana da questa tavoletta in cui inestricabilmente s’intrecciano il colore un po’ fanée delle glorie passate (quelle macchie di muffa verdastra sugli intonaci…) e la dimessa verità di un quotidiano etico.
Credo che Cecchi pensasse al Carducci delle Odi barbare, quello che canta il “verso in cui trema un desiderio vano de la bellezza antica”. L’intreccio narrativo fra la donna, il bambino e lo speziale ripresi sullo sfondo illustre della storica farmacia, della quale paiono inconsapevoli, ci riporta poi alle atmosfere sentimentali e malinconiche dei romanzi di Antonio Fogazzaro, alle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, in cui le aspettative eroiche, romantiche e risorgimentali, già patiscono la delusione, il ripiegamento. Ciò malgrado c’è sempre una finestra o una porta aperta nelle stanze di Marchesi, dalle quali entra una luce che è quasi sempre estiva, dorata, che dà forma e concretezza a cose e persone e porta con sé quasi un’allegrezza, un risarcimento, anche se la sua tavolozza privilegia le terre e le ocre, una tavolozza emiliana, rosso-bruna, come acutamente sottolineava Roberto Tassi (1986, p. 23) riprendendo Francesco Arcangeli. L’occhio del pittore è incantato e si fa morbido come morbida, a tocco se non a macchia si fa la sua stesura, allargandosi e allungandosi la pennellata mentre abbandona ogni attitudine inventariale di ricerca del dettaglio microscopico per cercare invece il carattere il senso, l’interpretazione del reale. Non è questo lo sguardo del naturalista o del realista tout court, un atteggiamento positivo che non si confà alla natura del Marchesi, ma di un artista innamorato del reale, e dell’inverarsi della storia nel quotidiano, questo gli dà emozione, e sa trasmettercela.