- Titolo: Incoronazione della Vergine
- Autore: Antonio Allegri, detto il Correggio
- Data: 1522 circa
- Tecnica: Affresco staccato
- Dimensioni: cm 212 x 342
- Provenienza: Parma, abbazia di San Giovanni Evangelista, catino absidale
- Inventario: GN1450
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Parma al tempo dei Farnese
“Les fresques sublimes du Corrège m’ont arrété à Parme, d’ailleurs ville assez plate. La Madone bénie par Jésus, à la bibliothèque, m’a touché jusqu’aux larmes. Je paye un garçon de salle pour qu’il me laisse un quart d’heure seul, perché au haut de l’échelle.” Al di là del ben noto entusiasmo romantico espresso da Stendhal (19 dicembre 1816, 1888, p. 111) nei confronti di Correggio, il singolare fraintendimento iconografico, malgrado la distanza ravvicinata e pur considerando l’oscurità della profonda galleria nella stagione invernale nonché le probabili cattive condizioni di conservazione, coglie, forse suo malgrado ma con perspicace sensibilità, il carattere regale della scena.
Carattere che, scorrendo la serie dei disegni preparatori (Popham 1957; Di Giampaolo – Muzzi 1988; Ekserdjian 1997), non apparteneva del tutto all’idea originale del pittore ma che sembra accentuarsi e precisarsi man mano che dalle prime idee si procede verso la versione finale. Le modifiche riguardano in particolare il gesto di Cristo che dapprima appare girato di trequarti verso la madre, con entrambe le braccia alzate (cfr. il disegno di Rotterdam, inv. I-381), in un protendersi che mima piuttosto l’abbraccio, mentre non v’è traccia alcuna dello scettro e del mantello fissato dall’aureo medaglione che caratterizzano il testo definitivo.
Anche la figura della Vergine, pur restando più stabile, è oggetto di una piccola ma significativa modifica: il suo volto e i suoi occhi, prima girati verso il figlio, si rivolgono poi verso la colomba dello Spirito Santo che plana fra di loro, sacralizzando un legame che forse poteva apparire troppo umano.
Tappa importante di questo percorso di individuazione semantica si è rivelata la sinopia, recuperata nel corso del restauro del 1937 (Quintavalle 1937), in conseguenza del quale il frammento di affresco fu trasferito in Galleria. Stesa a pennello bruno sull’arriccio con un tratto veloce, fluente e sicuro specie per quel che riguarda la figura della Vergine, e un andamento da sinistra verso destra (come ha rivelato il restauro recente, 1998), è assai vicina alla stesura finale, pur rivelando, ancora una volta, qualche incertezza in relazione a Cristo: i segni si sovrappongono e appaiono più tormentati, la mano sinistra, che poi impugnerà lo scettro, raccoglie il mantello. A parte l’ovvia ma intensa emozione di poter apprezzare la straordinaria felicità espressiva di un pittore che – secondo Vasari – peccava nel disegno, il confronto reso possibile dallo stacco conferma implicitamente il progressivo declinare del soggetto verso una maggiore regalità.
Un soggetto d’altronde che la committenza benedettina (per la quale Correggio aveva da poco terminato nella stessa chiesa la cupola con la Visione di san Giovanni a Patmos) aveva scelto non solo perché la Vergine incoronata era la principale patrona della città, ma anche come rinnovato omaggio e ringraziamento per la vittoria riportata dalla città nei confronti delle truppe francesi nell’estate del 1521. Un tema quindi di larga devozione e insieme in qualche misura “municipale”, carattere suggestivamente confermato (Dall’Acqua 1984, pp. 144 e 155) dal confronto con la cera (conservata in Archivio di Stato a Parma) col sigillo ufficiale del Comune risalente al secondo ’400: il soggetto è proprio la Vergine incoronata dal Figlio fra i santi protettori della città, Maria vi compare seduta, con le braccia incrociate sul petto. Ma quel gesto, simbolo straordinario di sottomissione e amore accentuato dal trepido reclinarsi del capo, che Correggio da subito individua come elemento portante della sua Maria, quel gesto cui i gomiti sollevati e la mano morbidamente distesa danno l’enfasi e l’empito di un’offerta o di un’ascesa, quel gesto insomma è insieme moderno e antico, tanto antico che lo ritroviamo, e siamo ancora a Parma, a distinguere, fra le altre pie donne, la Maddalena ai piedi della Croce nella lastra con la Deposizione di Benedetto Antelami della Cattedrale, datata 1178 (vedi I vol., p. 9, in basso).
La memoria dell’antico e l’istanza del presente si intrecciano così ad altre memorie più recenti, romane (il Raffaello della Disputa del Sacramento in special modo), che risuonano nella tipologia del Cristo, nella sublime tenerezza del volto della Vergine, e soprattutto nella tavolozza accordata sulle tonalità azzurro rosa oro e schiarita sfruttando la saturazione cromatica e luminosa dell’intonaco sottostante. Se lavora all’abside nella primavera/estate del 1522 (date sulle quali si può registrare, con l’eccezione di Gould 1976, una quasi totale concordia critica), il ricordo del mitizzato viaggio a Roma e l’euforia di parlare la lingua “moderna” della pittura, così assolutamente ed emotivamente percepibile nella cupola di poco precedente, si stempera adesso in un linguaggio più variato e articolato, che gli consente di recuperare il motivo mantegnesco della spalliera vegetale sul fondo, nonché di utilizzare arditi salti di scala (certo lontani dalla perfetta euritmia raffaellesca) nelle teorie di personaggi disposti lateralmente rispetto alla coppia centrale.
Su ciò naturalmente per quanto è consentito intuire dalla pur volonterosa copia che Cesare Aretusi, a partire dal 1587, esegue sull’intonaco dell’abside ricostruita e allargata per ottemperare ai dettami liturgici controriformati. Cui non ci si può sottrarre naturalmente in quella che ormai è la capitale del ducato farnesiano, tuttavia tentando almeno di salvare memoria di quella che, all’evidenza e almeno entro i confini parmensi, viene già ritenuta una grande testimonianza artistica. E non soltanto: prima di abbattere la primitiva abside (1586 circa) i benedettini tentano il recupero di quello che era il centro autentico dell’opera che si doveva perdere: con lame sottili viene segato a massello il nucleo centrale e portante, inscritto entro un telaio di ferro e così salvato insieme a pochi frammenti con teste di putti, oggi presso la National Gallery di Londra.
Difficile oggi indagare le ragioni di un’operazione certamente assai complessa per i tempi: forse devozione e venerazione pubblica per l’immagine (cfr. il caso analogo della Madonna della scala (scheda n. 146) e dell’Annunciazione (scheda n. 144) dello stesso Correggio), forse, ci piacerebbe pensarlo, precoce riconoscimento critico della personalità di un grande artista che il ’500 intero sembra dimenticare fuori dall’ambito locale, forse segnale di un’altrettanto precoce coscienza di conservazione e tutela. Si tratta in ogni caso della stessa premura che spinge a trasferire il frammento, nel 1588, nell’oratorio della Rocchetta (Pietro Martini, che ricostruisce questi passaggi nel 1871 fornendone la documentazione, insinua con malizia tipicamente ottocentesca che i frati l’abbiano venduto piuttosto che donato al duca Ranuccio I), quindi a farlo inserire nel muro del Salone grande della Pilotta da Francesco Farnese che all’inizio del ’700 ivi aveva raccolto ed esposto parte delle proprie collezioni, dove rimane anche al tempo della trasformazione di questa sala del Palazzo in Biblioteca ad opera dell’architetto Petitot. Infine, ed è cronaca che Martini racconta in tempo reale e con ovvia partecipazione, poiché da più parti si lamentano le cattive condizioni di decoro e di visibilità in cui l’opera tanto amata viene conservata, viene dato l’incarico al pittore Girolamo Magnani di inscrivere l’affresco in una decorativa cornice monocroma di gusto neocinquecentesco: la stessa che oggi ritroviamo intorno alla sola sinopia.
Ma tentando ancora un momento, con l’aiuto della copia dell’Aretusi, di riportare il nostro frammento a quello che doveva essere il testo originale, è possibile meglio comprendere il senso di quel fondo dorato, di quel pulviscolo luminoso che circola e bagna i divini protagonisti: personaggi senza aureola ma inscritti in una grande aura centinata che li enuclea inevitabilmente, attraverso il filtro delle nuvole, sia dagli angeli che dai santi, e li colloca nell’empireo. Per i fedeli nella navata l’arcone del presbiterio doveva incorniciare proprio questa scena centrale, sorta di finestra aperta sull’immagine del Paradiso. Ancora la tradizione dell’antico, anche se desueto, in questo caso l’oro dei mosaici bizantini e dei fondi trecenteschi nel suo valore simbolico di rappresentazione dello spazio metafisico: Correggio si rivela pittore che non accetta la censura dello “stile”, di una presunta modernità, dotato di sapienza e fantasia figurativa che lo portano a recuperare autonomamente modi, vocaboli iconografici, simboli, senza preclusioni.
Anche dal punto di vista tecnico: osservando da vicino il nostro frammento se riconosciamo dalla giunzione delle giornate un procedere da sinistra verso destra e dalla parte centrale delle figure al fondo, non è leggibile invece alcuna traccia né di incisione da cartone né di spolvero. Perlomeno in questa parte centrale Correggio sembra lavorare a buon fresco usando l’unica traccia della sinopia, quasi a mano libera insomma, seguendo una modalità operativa che i grandi frescanti toscani e romani certo non avrebbero consigliato perché troppo rischiosa, tant’è che Vasari già nella prima edizione delle Vite (1545) non ne fa cenno descrivendo invece accuratamente la tecnica del disegno riportato da cartone.
Tuttavia la circostanza singolare è l’utilizzo variato delle tecniche, non leggibile naturalmente solo nel nostro frammento ma ampiamente documentato dagli studi e dalle rilevazioni che hanno accompagnato il restauro della cupola nella stessa chiesa (Zanardi 1990): incisione diretta, spolvero, incisione da cartone, sinopia, in un’alternanza dettata forse dalle ragioni, insondabili oggi, della creatività o forse, perché no, dalla casualità delle circostanze oggettive, in ogni caso ancora senza preclusioni e con grande sicurezza. Una sicurezza che ci riporta alle considerazioni elaborate proprio da Vasari non tanto nella vita dedicata all’Allegri, bensì piuttosto nell’Introduzione alla seconda edizione delle Vite (1568, ed. 1945, vol. I, pp. 160-161) a proposito della “mano” d’artista adatta al “dipingere in muro”: “Vuole ancora una mano destra resoluta e veloce, ma sopra tutto un giudizio saldo ed intero… E però bisogna che in questi lavori a fresco giuochi molto più nel pittore il giudizio che il disegno, e che egli abbia per guida sua una pratica più che grandissima, essendo sommamente difficile il condurlo a perfezione. Molti de’ nostri artefici vagliono assai negl’altri lavori, cioè ad olio o a tempera, et in questo poi non riescono per essere egli veramente il più virile, più sicuro, più resoluto e durabile di tutti gli altri modi, e quello che, nello stare fatto, di continuo acquista di bellezza e di unione più degl’altri infinitamente” (p. 80). E ripensando a quella che sarà dopo pochi anni la grande impresa artistica della cupola del Duomo, è proprio questa mano che immaginiamo all’opera su quei rivoluzionari ponteggi.