- Titolo: I santi Chiara, Carlo e Francesco adorano il Crocifisso
- Autore: Anonimo emiliano
- Data: Prima metà del XVII secolo
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 216 x 146
- Provenienza: Ignota
- Inventario: GN 962
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
Compare come già trascritto nell’Inventario generale del 1852 entro il capitolo delle opere di provenienza sconosciuta (al n. 159). Sfuggito comunque ad ogni attenzione critica, nell’Inventario corrente lo si legge come di autore ignoto, aggiungendosi l’osservazione che si tratta di “opera rozza di scuola emiliana della fine del sec. XVII”. Non viene citato né nel catalogo del Ricci (1896) né in quello di Quintavalle (1939).
La rappresentazione dei Santi Chiara e Francesco insieme con San Carlo Borromeo, con il conferire a tutti e tre i personaggi una parità di ruolo nell’azione dell’adorare il Crocifisso (san Francesco sta spiegando a santa Chiara come anche san Carlo abbia una particolare devozione al sacro oggetto), non aiuta a individuare da quale luogo di culto cittadino si sia acquisita questa piccola pala d’altare: poteva essere, fra i numerosi a Parma appartenuti all’Ordine francescano, la sede delle Cappuccine vecchie, l’edificazione del cui monastero veniva conclusa nel 1610, continuando i lavori per la chiesa fino al 1653. In quest’ultima, si trovavano espressioni artistiche quali, all’altare maggiore, il dipinto del Guercino raffigurante la Madonna e i santi Francesco e Chiara e, in altro altare, la pala di Carlo Francesco Nuvolone con la Beata Vergine col Bambino e i santi Carlo Borromeo e Felice da Cantalice (vedi scheda n. 517 in questo volume).
È possibile pertanto immaginare – in via di mera ipotesi – che in questo dipinto si venissero a concentrare, per la cappella interna del convento, le presenze religiose che erano oggetto di culto nella chiesa esterna.
La devozione di san Carlo per la Passione e per il Crocifisso è momento fondamentale della sua agiografia: egli ebbe a confessore e a padre spirituale un religioso francescano e fu a Torino quattro volte per venerare la Sindone.
Fra i consueti simboli francescani (il teschio e il libro per san Francesco, l’ostensorio eucaristico per santa Chiara), dipinti da questo pittore in primo piano ad evidenza didascalica, richiede maggiore attenzione quello della corona, oggetto che ha sempre il significato dell’abbandono di un potere terreno e che, in questa particolare circostanza, allude alla decisione, assunta da san Carlo dopo la morte dell’unico fratello Federico avvenuta nel 1562, di rinunciare alla figliolanza e alla prosecuzione dinastica, nonché all’eredità del principato di Oria, la cui rendita veniva da lui devoluta ai poveri.
Proprio la rarità di questo particolare iconografico – qui usato in accezione episodica – potrebbe indurre a una collocazione cronologica del dipinto ancora abbastanza vicina alla data del 1562; ciò non toglie che, in seno all’Ordine francescano, potesse mantenersi piuttosto a lungo l’uso di questo exemplum di disciplina monastica, fondata sulla castità e sulla povertà.
Il risultato stilistico dell’opera, ancorato a forme tardomanieristiche fra lombarde ed emiliane, tenta un approccio al naturalismo del ’600 con il solo effetto di un descrittivismo insistito (con una specie di horror vacui) e con una espressività caricata fra l’ammiccante e il declamatorio.
Si tratta di quel ritorno al Correggio che a fine secolo in Emilia approda a esiti di notevole affinità con il baroccismo del centro Italia, così che questo dipinto invita al confronto, ad esempio, con Andrea Lilli e, in particolare, con quel momento involutivo della sua tarda maturità, intorno già al 1630, che si osserva negli affreschi con Storie di san Benedetto del chiostro ascolano di Sant’Angelo Magno. Intorno a queste date la situazione artistica di Parma vede ancora all’opera l’attardata maniera di Fortunato Gatti e l’ultima attività dei due Bernabei. Poco distante, fra Bologna e Modena, Matteo Loves risulta talvolta di modi affini al nostro pittore ignoto quando, meno controllato e meno improntato al Guercino, in lui riaffiorano i ricordi della sua prima formazione nei cantieri romani del primo ventennio del secolo.