Assume il valore e la funzione quasi di un testamento morale questo prestigioso ritratto del potente Du Tillot, primo ministro del ducato dal 1759 ma sul punto di dover lasciare la carica e l’Italia “a furor di popolo”, aizzato peraltro dagli intrighi di Maria Amalia, nel novembre del 1771. Di poco antecedente a questa fatale data, ma successiva al 1764, anno in cui il duca gli concesse il feudo di Felino e il titolo di marchese, mi pare infatti si possa situare la nostra tela, specie se opportunamente confrontata con il Ritratto di Du Tillot che sospende la lettura (in collezione privata e reso noto da Cirillo 1997, pp. 281-282), pure del Ferrari e databile intorno al 1763. Entrambi comunque risultano debitori alla più moderna tradizione della ritrattistica francese, da Tocqué a de Latour a Liotard soprattutto, sia per l’inquadratura che per l’atteggiarsi confidenziale e l’ambiente antiretorico, sia per l’attenzione minuziosa al dettaglio, mentre la lucentezza scolpita e rigonfia delle materie risulta in singolare consonanza di risultati con la ritrattistica di Alexandre Roslin (ça va sans dire, attraverso la mediazione di Baldrighi).

Il confronto risulta significativo per l’indubitabile distanza anagrafica che caratterizza le due effigi, il volto del nostro appare più segnato dall’età e forse dalle preoccupazioni, come prosciugato pur se il ministro mantiene il controllo sorridente della fisionomia; e suggestivo per la diversa atmosfera e allure che li distingue, più colloquiale intima e distesa quella del primo, più ufficiale, aristocratica, e consapevolmente orgogliosa, da ministro e marchese, quella del secondo. Ci sono poi anche delle tangenze: la presenza di un libro ad esempio, aperto sulla scrivania nel primo, disinvoltamente tenuto in mano, ma il pollice tiene il segno a sottolineare anche in questo caso la lettura interrotta, nel secondo, indizi in entrambi i casi di una consuetudine, una dimestichezza, un amore forse per i libri e la cultura, testimoniata peraltro da tutta la lunga attività del ministro a Parma. Pressoché identico è il calamaio con le penne infilate che si intravede sullo sfondo a sinistra, atto a inquadrare un ambiente di studio e di lavoro, fatto di lettere, provvedimenti, decisioni e rapporti importanti, uguale è la parrucca dagli stretti riccioli alla francese, ovvia indicazione di uno status aristocratico comunque importante anche nell’intimità del proprio studio. Non è mai in veste da camera il Du Tillot, anche se l’eleganza degli abiti del primo ritratto risulta più disinvolta rispetto alla rossa marsina di seta marezzata accesa dalle decorazioni in gallone dorato, dall’elsa dello spadino che spunta dal fianco, dai riflessi pure dorati delle trine dei polsi e dello jabot. Molto alla francese e molto ministro appunto, tanto che il pittore che lo ritrae deve aggiornare i suoi strumenti, abbandonare il fare più sintetico e uniforme dell’opera giovanile per uno sguardo più curioso, una pennellata più precisa, lucida, analitica che in tocchi successivi e sapienti riesce a cogliere tutte le accensioni, i riflessi, i dettagli delle preziose materie esibite. Certo a uno di questi due ritratti, più probabilmente al nostro anche per la sua “ufficialità”, si riferisce Giuseppe Bertoluzzi quando (nelle Vite manoscritte, in Cirillo – Godi 1980, p. 78) elogia un ritratto del Du Tillot commissionato dall’accorto mecenate proprio per far brillare i talenti del Ferrari, e dal quale conseguirebbe la nomina dell’artista a ritrattista della Corte in sostituzione del Baldrighi “già avanzato in età, e incomodato dagli aciachi”. Considerando che la data di tale nomina è il 1783 (Cirillo, in Godi – Mingardi 1994, scheda n. 37, p. 46), è comunque, salvo ulteriori affioramenti, tra i due il nostro il più vicino alla data in questione e il più stilisticamente adatto al risultato conseguito. È ancora Bertoluzzi a fornirci qualche possibile indicazione sulla originaria provenienza dell’opera poi acquistata dall’Accademia nel 1836, poche righe più avanti infatti precisa “Però riusciva più felicemente a fare il ritratto, di maniera che il di lui maestro, un giorno in casa di chi scrive disse, osservando il summentovato ritratto di Du Tillot, che non avrebbe voluto dipingere una testa in concorrenza con lui. Gli accessori poi li toccava con tale verità e maestria ch’era un incanto”. Ora, a parte il solito pettegolezzo sulla presunta rivalità fra maestro e allievo, ciò che ci interessa è la localizzazione del ritratto entro la collezione di Liborio Bertoluzzi, di cui Giuseppe era figlio. Effettivamente, come già reso noto da Fornari Schianchi (1979b, p. 119), nell’elenco dei beni dell’eredità Bertoluzzi (Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Callani e Bertoluzzi, c. 67), risulta al primo posto proprio un ritratto di Du Tillot. Considerando i rapporti di familiarità tra i due che porteranno Liborio a seguire il ministro nel ritorno a Parigi, dove resterà fino alla sua morte non ritornando a Parma che nel 1776, il ritratto in questione potrebbe aver fatto parte dei beni lasciati dal ministro in eredità al suo valletto, nominato anche esecutore testamentario (Cirillo 1995, pp. 56-63). Testamento morale, si diceva all’inizio, forse un’ombra di malinconica rassegnazione si riflette dagli occhi del ministro verso chi guarda, ad allontanare ogni sospetto di pura e semplice celebrazione, “sic transit gloria mundi” sembra volerci dire, più laicamente quasi un addio.

Bibliografia
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Ceschi Lavagetto 1989, p. 246;
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Restauri
1978
Mostre
Firenze 1911;
Parma 1952;
Torino 1961;
Parma 1979
Luisa Viola, in Lucia Fornari Schianchi (a cura di) Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere. Il Settecento, Franco Maria Ricci, Milano 2000.