La vicenda di questo dipinto è analoga a quella del precedente: nel 1786 furono i Minimi a dover far dipingere una pala per la loro chiesa di San Francesco di Paola celebrativa della beatificazione di due umili frati dell’Ordine, Nicola da Longobardi e Gaspare del Bono (avvenuta rispettivamente il 17 e il 10 settembre di quell’anno, cfr. Russo in Bibliotheca Sanctorum, IX, 1967 p. 922 e III, 1962, p. 334) e ancora una volta, quasi a ribadire il suo ruolo di interlocutore privilegiato della committenza religiosa, ne viene incaricato il Callani.

Secondo lo Scarabelli Zunti il pittore avrebbe dipinto la tela in brevissimo tempo per consegnarla entro quello stesso anno, mentre ancor più dettagliatamente nel manoscritto del Baistrocchi – Sanseverino si riporta, in relazione al quadro, la data del 12 settembre 1786 e lo si dice ordinato da un benefattore, senza peraltro specificare ulteriormente la fonte della notizia (effettivamente in un Libro degli Introiti del convento, in ASP, fondo Conventi, XL San Francesco di Paola, b. 19, risulta a tale data un forte donativo di ben 472 lire da parte di un anonimo offerente). La pala fu posta all’altare della seconda cappella a destra (Affò), rimanendovi fino all’epoca della soppressione napoleonica del 1810, per poi essere trasferita in Accademia, ove è segnalata a partire dall’Inventario del 1819 e dalla pubblicazione del Toschi. È ritenuta da Riccomini la prima opera del Callani dopo il rientro da Roma, che egli colloca appunto nel 1786, ma in realtà potrebbe essere stata eseguita nella capitale, dal momento che, se è vero che l’artista vi si recò nel 1781 e vi rimase per sette anni (come afferma Scarabelli Zunti e riporta lo stesso Riccomini), il ritorno a Parma sarebbe da posticipare al 1788 e in effetti la sua presenza alle sedute dell’Accademia divenne costante a partire dal giugno 1788 (cfr. Atti… 1770-1793 e 1794-1824, passim).
L’esecuzione dovette essere comunque realmente rapida, il che forse giustificherebbe il carattere vagamente irrisolto della composizione e un fare che a queste date esula dai modi consueti del Callani, costituendo un episodio un po’ isolato nel percorso verso un consequenziale “neoclassicismo cattolico” (Riccomini 1977a, p. 157), che negli Anni novanta sarebbe giunto a un esito di grande rigore e coerenza nel bellissimo Sposalizio mistico di santa Caterina per la parrocchiale di Villa Cadè, quasi programmatica risposta al moralismo civile e repubblicano affermato solo poco prima da David. Il dipinto in esame si discosta da questa linea, segnando quasi un ripiegamento sui moduli compositivi delle opere giovanili, frequentemente impostate su diagonali o aeree disposizioni di ascendenza barocca e ancor prima correggesca, come la già citata Assunta in San Bartolomeo o la pala dei Santi Vescovi piacentini (1772) per il Duomo di quella città. In una visione scorciata dal basso, i due beati appaiono su nubi all’interno di una grandiosa architettura che pare memore delle prospettive ad angolo dei Bibiena (Godi 1974): in primo piano Nicola da Longobardi sorretto da un angelo alza estatico gli occhi alla colomba dello Spirito Santo, mentre un secondo angelo è sul punto di colpirlo con la freccia; un poco più in alto sulla destra un altro angelo, tra putti di derivazione correggesca, accoglie e presenta al cielo Gaspare del Bono. Mentre Riccomini (1977a) vede in questi effetti insolitamente ridondanti riflessi dell’opera del Corvi a Roma o del Gandolfi a Bologna, Cirillo e Godi (1974 e 1979b) vi denotano stilismi rubensiani, peraltro riaffioranti, ma con ben altra tempra, anche nell’incompiuto Compianto di Cristo (Parma, Istituto Toschi) commissionato direttamente dal duca Ferdinando e lungamente elaborato dagli anni romani fino alla morte (vera e propria summa del percorso callaniano, vi confluiscono ricordi “dei Carracci, del Lanfranco, di Van Dick e del grand goût francese” e anche una eco del solenne patetismo del contemporaneo Peyron (Riccomini 1977a, p. 192). Nel quadro della Galleria Nazionale il recupero degli elementi secenteschi resta alquanto esteriore e il dipinto si connota per un che di irrisolto, tanto nell’impianto prospettico, sontuoso ma un po’ traballante, quanto nella posizione del beato Nicola rigida e malamente combinata con quella dell’angelo che lo sostiene, tale da porre in primo piano il curioso particolare della calzatura, riferimento alla realtà quotidiana così desueto nelle atemporali composizioni del Callani (ma come dice Riccomini è appunto un “lapsus”). Anche la figura dell’angelo con la freccia, forse la più bella del quadro per eleganza di forme, grazia dei tratti e sapiente ombreggiatura (rivisitazione in panni classicheggianti con morbidezze alla Correggio del celebre prototipo iconografico berniniano), non riesce a fondersi col gruppo dei personaggi, rimanendovi quasi giustapposta. L’insieme risulta dunque non perfettamente coerente e si evidenzia pure una certa corsività nella resa dei putti, non ben proporzionati, o nella ripetitività con cui sono delineate le teste dell’angelo in alto e del beato Nicola, quasi identiche: la necessità di rispettare precisi termini cronologici legati al movente della commissione, imponendo un’esecuzione rapida impedì probabilmente al Callani quell’elaborazione meditata che è alla base delle sue opere migliori, o forse in ultima analisi è il tema stesso così “estatico” a essergli sostanzialmente estraneo. Il quadro dovette comunque piacere ai frati di San Francesco, che una decina di anni dopo torneranno a chiamare il pittore per la pala da porre sull’altare maggiore della loro chiesa, in cui egli raffigurerà, con un sottile intento apologetico esaltante l’umiltà cristiana di fronte alla forza del potere politico, l’Incontro di Luigi XI e san Francesco di Paola (oggi in San Vitale a Parma), rievocazione in chiave troubadour, con suggestioni francesi, di un medioevo cristiano che tanta fortuna avrà nel
XIX secolo. (S.C.)

Bibliografia
Affò 1794, p. 116;
Baistrocchi – Sanseverino II metà del XVIII secolo, c. 26;
Toschi 1825, p. 11;
Gabbi 1840, c. 183;
Inventario… 1819;
Inventario… 1852, n. 22;
Inventario… 1874, n. 100;
Martini 1875, p. 8;
Pigorini 1887, p. 8;
Ricci 1896, pp. 167-168;
Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Memorie…, c. T;
Sorrentino 1931, p. 18;
Quintavalle A.O. 1939, p. 238;
Ceschi Lavagetto 1973a, p. 733;
Godi 1974, p. XXVI;
Allegri Tassoni 1975, p. 50;
Riccomini 1977a, p. 177 con f.;
Cirillo – Godi 1979b, pp. 46-47;
Riccomini 1979a, p. 178, f. 159;
Colla 1989, p. 644