- Titolo: Furio Camillo libera Roma
- Autore: Giuliano Traballesi
- Data: 1764 (I premio)
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 96 x 145
- Provenienza: Parma, Accademia di Belle Arti
- Inventario: Inv. 21
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: L'Accademia
Il dipinto ottenne il primo premio di Pittura nel 1764 al concorso dell’Accademia di Belle Arti di Parma. Il tema di storia romana, ispirato a Tito Livio e a Plutarco, veniva riproposto ai concorrenti per il secondo anno consecutivo, non essendo stato assegnato alcun premio nel 1763, a causa dell’“infelice mediocrità” delle tele presentate. Per questo motivo la commissione accademica aveva destinato al vincitore del concorso del 1764 due medaglie d’oro.
L’opera del Traballesi, presentata con il motto MAGNVS TAMEN EXCIDIT AVSIS, venne premiata per la facilità di esecuzione oltre che per il “ben distribuito chiaroscuro, una giusta armonia di colori, le estremità ben disegnate, un bel ritrovato di pieghe”; il giudizio della commissione non mancava tuttavia di osservare una resa del chiaroscuro non sufficientemente contrastata e una debolezza di vivacità espressiva, ragioni per le quali all’opera fu assegnata una sola medaglia.
Fedele alla trama dell’episodio proposto, il dipinto mostra in primo piano Brenno, condottiero dei Galli, che “contro ragione mette la sua spada sulla bilancia, dove da’ Romani si pesava l’oro patteggiato per la propria libertà”. Ai suoi piedi è il bottino conquistato ai vinti, rappresentato da un gruppo di vasi d’oro e d’argento, i cui modelli – come notava Louis Hautecœur – si rifanno più all’oreficeria rinascimentale che non agli esemplari antichi; mentre la sfavillante clamide rosso-arancio di Brenno, lo scudo, l’armatura e i calzari, rispecchiano un riscontro più fedele delle fonti antiche. Sul lato sinistro è la scena dell’arrivo del console Furio Camillo alla testa dell’esercito che, come recita il bando, “attacca valorosamente i superbi oppressori della Patria”. L’episodio viene risolto in un raffinato monocromo che differenzia sia sul piano spaziale che su quello temporale le fasi del racconto.
Alcune novità d’impianto imprimono alla composizione un orientamento già spiccatamente neoclassico. L’adozione dello schema piramidale, che interessa il gruppo principale attorno a Brenno, non interrompe lo sviluppo orizzontale della narrazione lungo l’asse del primo piano, che segue un andamento lineare, quasi da bassorilievo. La tela concede inoltre ampio spazio al paesaggio architettonico, con la rappresentazione di una Roma antica che, per quanto immaginaria, si staglia imponente sulla scena. Oltre all’edificio del Pantheon, sprovvisto del doppio frontone, vengono liberamente evocati il campanile del Campidoglio, le mura della città, vari templi e un mausoleo circolare. Nell’avviso del concorso si raccomandava peraltro ai partecipanti, forse su indicazione del Petitot, “di pensare quale architettura si convenga a que’ tempi di Roma, quali abiti ed armi ai Romani, e quali ai Galli Senoni”, senza trascurare, sempre in una prospettiva enciclopedista, “l’erudizione dei luoghi e delle Nazioni”.
L’opera si colloca agli esordi della carriera dell’artista, rappresentando allo stesso tempo una tappa significativa per il suo inserimento successivo in ambiente lombardo. L’attività del Traballesi, che interessa soprattutto la grande decorazione, si era svolta inizialmente nella provincia toscana (Siena, volta di Santa Maria della Misericordia; cupola del Santuario della Madonna di Montenero presso Livorno, 1771-1774), e in seguito a Milano, dove sarà chiamato nel 1775 a prendere parte alla decorazione del Palazzo Ducale (poi Reale) su progetto del Piermarini e dove, l’anno successivo, gli verrà assegnata la cattedra di Pittura della neofondata Accademia di Belle Arti. All’indomani della prova di Parma, la matrice tardobarocca iniziale risulta ormai allentata per dar luogo, soprattutto negli anni milanesi, a una produzione in linea con la rinnovata cultura accademica che cresceva intorno ad artisti quali il Piemarini, il Knoller e l’Albertolli (con i quali il Traballesi si trovò più volte a collaborare) e a teorici del “buon gusto” quali Giuseppe Parini e Carlo Bianconi.
Alcune lettere inedite del Traballesi, inviate al segretario dell’Accademia di Belle Arti di Parma per annunciare l’invio della tela e conservate presso l’Archivio della stessa Accademia, confermano che l’artista si era formato a Firenze alla scuola del pittore Agostino Veracini. La notizia va ad aggiungersi a quelle che lo danno per certo quale allievo di Francecsco Conti. (F.L.)