- Titolo: Funerali della Vergine (Dormitio Virginis)
- Autore: Niccolò di Pietro Gerini
- Data: 1300
- Tecnica: Tempera e oro su tavola
- Dimensioni: 244 x 201
- Provenienza: acquistata a Firenze nel 1787 da Alfonso Tacoli Canacci
- Inventario: GN431
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: La pittura toscana e in Italia centrale 1200-1500
L’opera è in eccezionali condizioni di conservazione: si lamenta soltanto il rifacimento della punta della cuspide (compresa buona parte della testa della Vergine) e le inevitabili cadute di colore in corrispondenza della commettitura delle tavole del supporto.
Queste ultime sono quattro per la scena maggiore e due per la Assunzione, tutte disposte in orizzontale. L’iscrizione sul retro chiarisce che il monumentale dipinto, estratto da un’imprecisata Compagnia fiorentina estinta nel 1786 in occasione delle soppressioni volute dal granduca Pietro Leopoldo, fu acquistato l’anno seguente dal marchese Alfonso Tacoli Canacci come opera di Giotto, per conto di Ferdinando di Borbone duca di Parma.
È probabile che l’opera appartenesse a quel primo nucleo di “primitivi” pervenuti a Ferdinando appunto nel 1787 e di cui il Tacoli riferisce a Ireneo Affò in una lettera di quello stesso anno (cfr. Talignani 1986, p. 35). Il duca conservava la pala nella residenza di Colorno, donde la trasse nel 1821 Paolo Toschi per destinarla alla Galleria secondo le volontà della nuova sovrana, Maria Luigia d’Austria (Toschi 1821; Toschi 1825). Nel 1851 la tavola con la Dormitio Virginis, disgiunta dalla cuspide, fu tra i quadri ritirati da Carlo III di Borbone e solo nel 1865 fece definitivo ritorno in Pinacoteca (Schenoni 1851 e 1865). Già nel 1862 tuttavia Giovan Battista Cavalcaselle, vedendo la scena principale nel Palazzo Reale e la Consegna della cintola in Galleria, le aveva riconosciute come parti di un medesimo complesso e con mirabile intuizione aveva fatto il nome di Niccolò di Pietro Gerini, pittore ignoto al Vasari ma sul quale l’erudizione ottocentesca era andata già raccogliendo buon numero di notizie e qualche opera sicura (Crowe-Cavalcaselle 1864). Il tradizionale riferimento a Giotto sopravvive nei cataloghi della Galleria di Martini (1875) e Pigorini (1887) e sarà Corrado Ricci (1896) a registrare per primo l’opportuno cambio d’attribuzione, accolto nel frattempo anche dal Cicerone del Burckhardt, giunto alla sua quinta edizione per cura di Wilhelm von Bode (1884). Da questo momento l’ineccepibile ascrizione al Gerini non incontrò più alcun ostacolo, e anzi, per la sua evidenza, sembrò a lungo esaurire ogni interesse per il dipinto di Parma: dal Sirén (1904 e 1920) a Khvoshinsky e Salmi (1914), dall’Offner (1921 e 1981) al van Marle (1924), fino al Berenson (1932) gli studiosi si limitarono a elencare i Funerali della Vergine nelle loro liste, sempre più affollate, delle opere del pittore o della sua bottega.
Nell’affrontare questa impegnativa commissione Niccolò Gerini si appoggia a due modelli prestigiosi e autorevoli. Nella scena dell’Assunzione il riferimento è al grande rilievo dell’Orcagna nel tabernacolo mariano di Orsanmichele, cui si allude per citazioni (quali il manto palpitante al vento di San Tommaso) senza tuttavia pervenire a una ripresa letterale. La scena maggiore (come vide per primo il Volbach: cfr. Vitzthum-Volbach 1924) è invece una esplicita copia della celebre tavola di Giotto già in Ognissanti a Firenze e oggi nella Galleria di Berlino, divenuta, come molti altri dipinti del caposcuola fiorentino e particolarmente nel clima di giottismo un poco accademico della seconda metà del ’300, modello normativo per numerose composizioni di analogo soggetto.
Un fenomeno non circoscritto alla sola Firenze: col dipinto di Ognissanti si confrontarono il senese Niccolò di Ser Sozzo (nel trittico del Museum of Fine Arts di Boston: cfr. Kanter 1994, pp. 101-103, cat. 19) e il lucchese Angelo Puccinelli (tavola datata 1386 in Santa Maria Forisportam a Lucca: cfr. Servolini 1934-35, pp. 219-221), mentre ancora più frequenti sono le riprese nel piccolo formato delle predelle (cfr. Previtali 1993, pp. 115-117, per alcune derivazioni particolarmente precoci; più tardo, e particolarmente fedele, il caso di Cenni di Francesco nel gradino di un polittico oggi al Getty Museum di Malibu, per cui si veda Strehlke 1993, p. 24, fig. 16). Gli apostoli dipinti da Niccolò nella tavola di Parma si affollano attorno al prezioso sarcofago cosmatesco smaglianti di colore negli accostamenti di tinte intere (vermiglio, verde mela, bianco, giallo zafferano, rosa…), impreziositi dalle aureole sontuose e tutte diverse fra loro che ne incorniciano le teste. Ma tutto questo lusso materiale rimane rigidamente serrato entro profili crudi e taglienti, in una secca giustapposizione di campiture squillanti, senza alcun interesse per una resa illusionistica delle relazioni spaziali (per cui, ad esempio, il cadavere della Vergine sembra destinato a cadere davanti anziché dentro il sepolcro). Il senso più profondo del nobilissimo archetipo di Giotto risulta irrimediabilmente frainteso in queste figure di monumentalità bidimensionale, nell’indifferenza per la psicologia dei protagonisti, ridotti in pratica a due sole tipologie (i vecchioni dalle formidabili barbe e i giovani biondissimi) e improntati a un’unica espressione di impassibile severità. La tavola di Parma appare insomma esemplare di quella tendenza, comune a tanta parte della pittura fiorentina della seconda metà del ’300, a rileggere Giotto riducendone l’esempio a una rigida grammatica figurativa, a un prontuario di fisionomie e sagome ritagliate, in una sorta di puristico e fiorentinissimo ritorno alle origini di cui Andrea Orcagna era stato il primo e fortunato ispiratore. Lo stesso strenuo neogiottismo interpretato in chiave strettamente orcagnesca si ritrova in altri dipinti del folto catalogo di Niccolò Gerini: dalla Madonna di Borgo San Lorenzo (altra copia da Giotto, precisamente dal polittico di Badia) al trittico del Museo della Collegiata di Empoli, i cui protagonisti appaiono interscambiabili con quelli della tavola parmigiana. Sono tutte opere che cadono in un momento ancora piuttosto precoce dell’attività del pittore, improntate a una cifra stilistica elaborata forse già sul 1370-1375 (come indicato da Boskovits, 1975, cui si deve l’analisi più accurata del dipinto di Parma) ma cui il Gerini dovette rimanere a lungo fedele, se identiche cadenze si leggono ancora nel trittico del 1387 un tempo nel convento camaldolese fiorentino di Santa Maria degli Angeli e oggi alla National Gallery di Londra (per cui si veda Cohn 1956, pp. 66-67 e Davies 1988, pp. 89-93).