“Et in Arcadia ego”, l’enigmatico motto del celebre quadro di Poussin interpreta al meglio, ma senza più alcun mistero, la presenza del poeta e abate Carlo Innocenzo Frugoni che, con posa statuaria, si appresta a declamare i suoi versi, affidati spesso all’estemporaneità di eventi dediche e celebrazioni varie con una certa resistenza a dar loro un’edizione a stampa che si concretizzerà solo dopo la sua morte, al cospetto silenzioso e ammirato di un popolo di pastori e pastorelle dietro le cui sembianze si maschera parte dell’aristocrazia colta locale.

Il galante umanista infatti aveva fondato a Parma fin dal 1739, con la protezione ducale, una colonia di quell’Accademia letteraria (ispirata al mito classico di una regione, Arcadia appunto, di monti e fiumi, l’Alfeo, culla di una società naturalmente felice e popolata di poeti-pastori), fondata a Roma già nel 1690 dal circolo di poeti e letterati che si riuniva intorno a Cristina di Svezia, e diffusasi presto in tutte le capitali culturali d’Italia. Cantore supremo di questa dimensione sentimentale e lirica della cultura italiana del tempo, è Pietro Metastasio, e credo fosse proprio lui, con la sua inesauribile ispirazione con il suo facile e scorrevole dettato con la sua facondia proverbiale e soprattutto con il suo successo con le donne e le corti più importanti, il modello implicito per il quasi coetaneo, più vecchio di sei anni, Frugoni (per un esauriente profilo biografico cfr. Lasagni 1999, II, ad vocem).

Così nella petite capitale non ci si lascia scappare l’occasione di celebrare la gloria dell’aedo locale, all’epoca segretario dell’Accademia, in occasione dei suoi settant’anni (1762) e del suo ritorno a Parma dopo un lungo soggiorno genovese, con una tela appositamente commissionata al pittore emergente Pietro Ferrari, direttamente dal Du Tillot, già destinatario di sonetti encomiastici dell’accorto poeta. Uno scambio di cortesie insomma: lo dimostra la notissima lettera, non datata, del Ministro in cui si offrono precise indicazioni sulle caratteristiche stilistico-letterarie del soggetto: fra l’Arcadia di Poussin e Watteau, un “lieu frondoso”, “un air rustique, avec des grâces et riant” (Bédárida 1928a). L’opera dovrà cioè essere piacevole, fresca e ariosa, accattivante e decorativa, un divertissement alla francese, non senza una velata sfumatura d’ironia nell’intento di travestire da pastore il settantenne poeta, cui la buona salute concedeva, sono sue parole, “un’esteriore mentita gioventù”, circondato da giovani fanciulle in fiore. Un’ironia che Frugoni peraltro coglie e per così dire perdona, nella lettera (resa nota da Lombardi 1912) alla contessa Del Bono (in Arcadia Dori mentre l’abate figurava come Comante Eginetico), e metaforicamente fa spallucce: “Evvi il fiume Alfeo uscito dall’acque e stante ad udirlo. Questo quadro sarà pubblicamente esposto nell’Accademia il giorno, che si distribuiranno i Premi, cioè, la seconda festa di Pentecoste, e vi starà più giorni. Farà ridere molti; ma ridano pure, che rido anch’io…”.

La puntuale descrizione nell’epistola della figura classica di vecchione appoggiato al timone, peraltro simile ad altre già viste nel Seneca svenato (inv. 920; cfr. scheda n. 738) e nella Guarigione del paralitico (inv. 15; cfr. scheda n. 739), e del contorno di pecorelle e caprette rivela che il protagonista ha visto l’opera pressoché terminata, quanto alla festa per la consegna dei premi si tratta evidentemente di quella dell’anno successivo (1763), alla cui data la tela risulta conclusa (secondo Cirillo 1995 questa sarebbe inoltre la data della lettera succitata). Un anno di elaborazione è testimoniato da alcuni disegni, in particolare il dettaglio della capretta sulla sinistra (nella collezione Ortalli della Biblioteca Palatina, reso noto da Cirillo – Godi 1991), e soprattutto dal foglio della Galleria (inv. 1214) che si rivela un vero e proprio studio completo. Il confronto tra questo e la stesura definitiva rivela la prima idea molto più fedele alle indicazioni del Du Tillot, e soprattutto molto più francese, alla Watteau per esempio nel particolare delle ninfe ignude, alla Poussin nella presenza più marcata del busto archeologico sulla destra e soprattutto nell’inarcarsi delle fronde degli alberi al centro fino a costruire un vero e proprio proscenio verde alla scena inquadrata sottostante, con l’elemento figurativo del bosco e del paesaggio che predomina nettamente, come in certo Poussin appunto, sull’elemento narrativo.

Molto cambia invece nella versione definitiva, dove la folta colonia di arcadi, che sembra intenta a un precoce déjeuner sur l’herbe, ma molto padano e tutto sommato innocente (il cestino con le vettovaglie entro il fazzolettone bianco fa pensare a un rustico picnic in riva alla Parma), domina, declinata in luminose tinte pastello intessute di azzurri brillanti rosa e ocra dorati che ricordano certamente Boucher, ma soprattutto la tavolozza ariosa dei veneti e in particolare la presenza a Parma di Sebastiano Galeotti. Il folto bosco si dirada in un doppio filare che fugge sfumato in lontananza, quinte verdi dell’alveo centrale del fiume presso il quale il poeta, ringiovanito dai neri capelli, recita la sua canzone. Come fosse un Bacco in trionfo o magari il Battista presso il fiume Giordano, e in effetti è già stata notata la curiosa assonanza fra la declamatoria gestualità del poeta, e la figura del Battista, nella pala eseguita dal Ferrari nel 1771 per la chiesa di Castel San Giovanni (inv. 770; cfr. scheda n. 724).

In ogni caso è il tono medio, quasi cronachistico che colpisce, come se l’artista abbia saputo intrecciare l’alta retorica dei modelli che gli erano stati indicati con una più quotidiana verità fatta di luoghi conosciuti e di eventi cui aveva magari partecipato o assistito. D’altronde dal 1754 è al lavoro a Parma l’architetto Petitot impegnato in un grandioso progetto di riqualificazione del Palazzo e del Giardino Ducale, per il quale immaginerà, sempre su sollecitazione del Du Tillot, e farà costruire, e non è un caso naturalmente, un Boschetto d’Arcadia, al cui centro figura un tempietto diruto, scenografica finzione archeologica adeguata, immaginiamo, ad accogliere le ultime prove dell’illustre abate, nonché la festa campestre in occasione delle nozze ducali. La famosa incisione con la Veduta del boschetto d’Arcadia dalla parte del Tempio è raccolta infatti nell’edizione Bodoni della Descrizione delle Feste celebrate in Parma per le nozze del Reale Infante duca di Borbone con l’arciduchessa d’Austria Maria Amalia del 1769, e rivela a che punto è il progetto e quanto sia in qualche modo legato alla tela in esame, specie per l’impostazione con il vasto spiazzo centrale stretto fra le quinte degli alberi. Non voglio dire che Petitot sia debitore a Ferrari, forse potrebbe essere il contrario considerando che l’architetto insegnava all’Accademia, certo è che il giro di anni è breve, che certamente le idee, i motivi, anche le feste e le maschere erano quelle per tutti, e che il Bosco d’Arcadia, questa sorta di fuga dalla realtà, di idillico vagheggiamento di un rifugio felice e appartato dalle avversità della storia, peraltro incombenti, è come un leitmotiv della cultura cortigiana parmense, una tentazione inconscia, che fa da contraltare imprescindibile al coté razionalista, pragmatico e illuminista pure presente nel governo e nella gestione del ducato.

Dalla voce e dal cuore del Frugoni, poeta, e dei suoi sodali (ma Delacroix e tutto il Romanticismo avranno Tasso nel cuore) sembra innalzarsi ancora e sempre quel canto nostalgico, tanto più patetico quanto più irrimediabilmente, a breve, perduto: “O bella età de l’oro,/non già perché di latte/sen corse il fiume e stillò mèle il bosco;/non perché i frutti loro/dier da l’aratro intatte/le terre, e gli angui errar senz’ira e tòsco;/non perché nuvol fosco/non spiegò allor suo velo,/ma in primavera eterna,/ch’or s’accende e verna,/rise di luce e di sereno il cielo;/né portò peregrino;/o merce o guerra agli altri lidi il pino;/ma sol perché quel vano/nome senza soggetto,/quell’idolo d’errori, idol d’inganno,/quel che dal volgo insano/onor poscia fu detto,/che di nostra natura il feo tiranno,/non mischiava il sua affanno/ fra le liete dolcezze/de l’amoroso gregge;/né fu sua dura legge/nota a quell’alme in libertate avvezze;/ma legge aurea e felice/che natura scolpì: S’ei piace, ei lice” (Tasso, Aminta, 1573). (L.V.)

Bibliografia
Affò 1794, p. 99;
Ricci 1896, p. 166;
Lombardi 1912, pp. 23-24;
Bédárida 1928a, p. 62;
Quintavalle A.O. 1939, p. 236 (con bibl. prec.);
Ghidiglia Quintavalle 1960 , tav. XXXVIII;
Pellegri 1965, p. 118;
Bigliardi 1977, pp. 46-47;
Riccomini 1977a, pp. 121-124;
Fornari Schianchi 1979b, pp. 114-116;
Bertoluzzi, in Cirillo – Godi 1980, p. 78;
Fornari Schianchi s.d. [ma 1983], p. 213;
Bédárida 1989, p. 121;
Ceschi Lavagetto 1989, p. 246;
Giusto 1989a, p. 715;
Cirillo – Godi 1991, p. 193-194;
Cirillo 1995, p. 60