- Titolo: Foro romano (Campo Vaccino)
- Autore: Luigi Marchesi
- Data:
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: 48 x 64
- Provenienza: Parma, Accademia di Belle Arti (inviato dall’artista come saggio di pensionato nel 1851); attualmente in deposito presso l’Ambasciata d’Italia a Washington
- Inventario: Inv. 591
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
Non poteva esimersi l’alunno della Scuola di paese, andando a Roma, dal cimentarsi in quello che era per eccellenza il genere dominante nella pittura di Paesaggio fin dal ’700 legato a quegli aulici romantici luoghi, e cioè la veduta classica di rovine, fra ricerca del sublime e sentimento nostalgico.
E seppure una lettera d’accompagnamento dei saggi al direttore dell’Accademia (riproposta da Mavilla 1998, p. 91, a proposito di una replica, inedita, in collezione privata) dica espressamente “Questi miei quadrucci sono stati fatti sempre sul vero. Se la loro esecuzione non smentirà la verità della mia asserzione mi chiamerò abbastanza contento”, a me pare che la vasta, ordinata, impaginata veduta, in cui spicca, stagliandosi contro un cielo meridiano, il tempio di Saturno mentre sullo sfondo riconosciamo distintamente (per l’appunto) l’arco di Costantino e le circostanti chiese, riveli piuttosto il rispetto di quello che era il canone della veduta di tradizione. Dalla scelta dei luoghi, alla leggibilità, non atmosferica, dei dettagli, al scenografico contrasto tra gli edifici diruti e il cielo, ai marmi spezzati in primo piano, col garzone macchietta, alla luce che scalda, dorata e carezzevole come era in Bellotto, i mattoni e gli intonaci. Certo, vien da dire, c’è vero e vero, e bisognerebbe intendersi sul senso da dare a questo termine così ambiguo e spesso usato anche a sproposito. Nel caso specifico: Marchesi avrà certo frequentato, e con entusiasmo, quei luoghi col suo album di fogli in mano, come il suo ruolo di apprendista pittore richiedeva, ma poi è nello studio che la più parte del lavoro sarà stata compiuta, e in quello studio forte certamente e determinante è stato il peso di una serie infinita di exempla imprescindibili, dai quali, ancora e comunque non in questi aulici soggetti, è in grado di prescindere. Certo non ha compreso la lezione di Corot, che pure era stato a Roma dal ’26, e pur qualcosa vi aveva lasciato, ma quegli anni sono ormai lontani e forse dimenticati nel gran bailamme romano. Del resto il lavoro piacerà molto al corpo accademico che ne apprezzerà proprio il carattere tecnico ed erudito, di “studio dal vero”, imitazione idealizzata di un reale attentamente selezionato. Da queste costrizioni, retaggio di una formazione a lungo sedimentata, Marchesi saprà emanciparsi solo al momento in cui, liberato dal peso delle preoccupazioni materiali, si dedicherà liberamente a quel “paesaggio d’interno” che più gli era congeniale.