- Titolo: Flagellazione di Cristo
- Autore: Giovan Battista Tinti
- Data: Fine XVI secolo ca.
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 87,5 x 67
- Provenienza: Calestano (Parma), collezione Giuseppe Pagani, 1939
- Inventario: 1453
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
Come il precedente anche questo dipinto venne donato alla Galleria da Giuseppe Pagani nel 1939 e attribuito al Tinti dalla Ghidiglia Quintavalle, sia pure in forma dubitativa: la studiosa giudica prossime alle sue opere del periodo tardo le “tonalità acidule”, il “piegare contornoso delle vesti”, il “gestire lieve delle mani” e individua nel quadro una più marcata caratterizzazione fiamminga, componente spesso presente nella sfaccettata cultura del pittore parmense, in particolare con suggestioni dal Soens e dal Calvaert.
A quest’ultimo pare in effetti rimandare la stessa impostazione compositiva della scena, simile a quella della Flagellazione da lui eseguita per la chiesa di San Leonardo a Bologna, con il Cristo al centro legato alla colonna e due carnefici ai lati, visti uno frontalmente l’altro di spalle, cui se ne aggiunge un terzo in secondo piano. Tale impianto è peraltro comune anche al maestro del Tinti, il Samacchini, nella tela in San Salvatore a Bologna e in quella più controversa della Galleria Borghese, incisa quest’ultima da Agostino Carracci, e va ricondotto al fondamentale prototipo di Sebastiano del Piombo per San Pietro in Montorio a Roma, opera conosciutissima nel secondo ’500 (De Grazia 1984b, pp. 94-95).
Altro illustre esempio poteva essere offerto dal tardo manierismo romano, ormai volto a formulazioni normalizzate in direzione controriformistica, con la Flagellazione di Federico Zuccari nell’oratorio del Gonfalone; in questo dipinto compare una zona in primo piano, assente invece nei dipinti bolognesi, con un soldato in funzione di quinta sulla sinistra e altri a mezza figura che indicano Cristo o si rivolgono al riguardante. Il Tinti utilizza il motivo dell’armigero di spalle appoggiato alla lancia in analogo ruolo di introduzione visiva nella documentata pala della Madonna del Rosario, già in San Pietro martire e oggi a Capodimonte (Leone de Castris 1994b, p. 261), desumendolo – secondo Cirillo e Godi (1995, pp. 151-152) – dal riquadro centrale del soffitto della sala dei Fasti Rossiani a San Secondo da loro attribuito a Ercole Procaccini.
Nella tela in esame ritorna a sinistra il soldato di spalle e una struttura a gradini come nel dipinto napoletano, ma la figura è tratteggiata con un fare decisamente più corsivo e “colorito”, priva dell’armatura e dell’elmo di gusto romaneggiante e corredata invece di un rosso copricapo quasi da cacciatore; inoltre, rispetto al dipinto napoletano, sono evidenti ingenuità proporzionali e prospettiche che mal raccordano questa zona alla scena principale. In senso più generale dubbi sull’autografia del Tinti potrebbero essere avanzati in base a una certa differenziazione delle fisionomie, dell’anatomia più esile, del panneggiare più minutamente pieghettato e della stesura coloristica a campiture più uniformi, prive di quei serici effetti propri delle sue opere certe. Nonostante il quadro si accosti al fare del Tinti (oltre al possibile riferimento alla pala del Rosario si vedano in particolare le figure di anziani in secondo piano), per i caratteri fiammingheggianti sarebbe forse più corretto pensarlo opera di uno dei tanti pittori delle Fiandre attivi a fine secolo nel ducato farnesiano, intento a sperimentare con inevitabili imprecisioni formali una composizione di figure piuttosto complessa, basata su iconografie note desunte forse da incisioni.