- Titolo: Favola di Diana e Atteone
- Autore: Felice Boselli
- Data:
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 141 x 108
- Provenienza: dono del conte Stefano Sanvitale nel 1838; in deposito presso la Prefettura di Parma dal 1945
- Inventario: GN 844
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
“… Divenne figurista mediocre d’invenzione, ancorchè valesse molto in copiare anche gli antichi, fino a ingannare i periti con le sue copie” (Lanzi 1789, ed. 1970, II, p. 253). Nel secolo delle Accademie e dei virtuosi la pratica della copia diventa una sorta d’appannaggio dei pittori di “genere”, proprio perché carenti sul piano dell’“inventione”, quella che sovrintende alla pittura di figura, di storia, mitologica e religiosa, e invece molto attrezzati sul versante, complementare, dell’“imitatione”.
Insomma sono copisti perché vengono considerati pittori di grado inferiore, e spesso vengono utilizzati anche come restauratori (e sì, esistono certamente delle affinità tra l’attitudine alla copia e l’esercizio del restauro come integrazione e risarcimento): lo sarà Cristoforo Munari a Pisa nella fase calante della sua carriera, lo è probabilmente anche Boselli che, insieme alle nostre copie eseguite intorno al 1704 (Scarabelli Zunti), “pasticcia” un po’ (l’ipotesi è avanzata dalla Ghidiglia Quintavalle 1967b, 1968a), pur con le migliori intenzioni, sulle pareti affrescate intorno al 1523 dal divino Francesco.
Le dodici tele si trovavano fino al 1707 (Bocchia Casoni 1964) in casa del conte Pietro Guareschi, forse dono, o prestito, di Alessandro Sanvitale a un fedele suddito e collaboratore, per essere poi riportate nella Rocca nel 1707. Fino a quando, nel 1838, Stefano Sanvitale le offre in omaggio all’Accademia di Belle Arti di Parma per convincerli, visto che la trattativa andava un po’ per le lunghe, all’acquisto di due tele del Cavalier Tempesta (cfr. scheda n. 609). Per ciò che concerne l’inganno dunque, non si doveva avere un gran giudizio di queste opere, nettamente distinte dalla grandezza del capolavoro originario, l’occhio del proprietario è comunque quello ottocentesco che premia il genio e l’originalità.
Epperò… se vogliamo riguardarle con sguardo meno viziato e modernamente intrigato dal gusto delle riprese, citazioni, traduzioni, omaggi, ci accorgeremo che non mancano certo né di originalità né di qualità. Il recente restauro ha messo in risalto valori cromatici modulati su toni brillanti e armoniosi, una stesura fluente e a corpo, ricca di velature, d’esecuzione veloce ma controllata, molto diversa (un’esibizione di sapienza tecnica “classica”?) dalla materia pittorica grumosa e filamentosa che Boselli privilegia per le dispense, competenza prospettica e compositiva nel riequilibrare con misura ed eleganza sulla tela il racconto che Parmigianino aveva disteso sulla volta e le quattordici lunette delle pareti. Non manca neppure di originalità, in quanto comunque la sua è non una copia tout court, né una semplice derivazione ma una vera e propria interpretazione, una traduzione di quest’opera difficile densa e simbolica, per certi versi ermetica del manierismo umanista. Un confronto che anche oggi ci farebbe tremar le vene e i polsi, e tuttavia Boselli ci prova, e ne esce una lettura non priva di dignità e misura, anche se risulta, come dire, una traduzione moralizzata (d’altra parte il secolo è questo), “normalizzante”. Nel senso che, là dove qualcosa nel racconto pittorico lo turba, o disturba, di fronte a quelli che peraltro sono ancora i nodi metaforici irrisolti e problematici di questo straordinario capolavoro, il pittore seicentesco non si tira indietro, cerca di scioglierli, certo a modo suo.
E cioè non rileggendo le Metamorfosi di Ovidio (sono certa che l’intellettuale e lunatico Francesco quei versi li aveva penetrati), ma riducendo ad sensum, buon senso e medietà, ciò che gli doveva risultare oscuro. Un esempio: ai due bimbi al centro della parete sud fa spuntare le ali pur rispettando i particolari degli orecchini, del taglio di capelli, della collana e del ramo di ciliegie del più piccolo, cui regala una testa più folta di capelli e più rotonda, per cui perde l’aspetto malaticcio.
La ragione? Togliere evidentemente un’anomalia entro il cerchio dei putti festanti, una deviazione la cui spiegazione forse si era persa nella memoria, o che risultava ancora troppo dolorosa, per i suoi mecenati, per riprodurla. Ancora: nella parete nord due cacciatori si accompagnano (seguono?) a una giovane cacciatrice che nelle lunette successive (parete est) si palesa come Atteone di fronte a Diana (indossano infatti vestiti assolutamente identici, e femminee sono le forme di Atteone cervo). Ma quale disagio avrà potuto comunicare al maturo e distinto pittore un Atteone donna, di cui non c’era traccia nella tradizione letteraria e le cui motivazioni dovevano risultargli del tutto incomprensibili? Tant’è che nella grande tela che riassume abilmente le lunette della parete nord prova a capire e a spiegarci: la giovane cacciatrice ci appare incoronata d’alloro (come una dea?) e il suo abito bianco è percorso dagli stessi entredeux dorati che caratterizzano il peplo bianco abbandonato sulla vasca rosata nella scena in cui Diana si lava: Atteone donna diventa Diana inseguita e scoperta da Atteone uomo (per essere più sicuro del riconoscimento Boselli lo dota di arco e frecce).
Certo l’identificazione dei ruoli e dei sessi è rassicurante, elimina un eventuale disturbo intellettuale ed etico, così come l’intento moralizzante che copre le nudità delle ninfe. Meno clamoroso, più sottile l’aggiustamento stilistico che crea forme ampie e dilatate, monumentali, quelle che Parmigianino evitava, che rialza tutti i colori evitando le delicatezze dei cangiantismi e accentuando i contrasti gradevoli, che trasforma le ghirlande verdi dei putti in trofei di frutti e ortaggi, forse li sentiva più decorativi e comunque più suoi, che trasforma in elegante padrona di casa, addolcendo i contorni e arricciando l’acconciatura, il volto enigmatico, efebico nel contorno dei capelli spettinati, di Paola Gonzaga/Cerere.
A questo proposito è interessante sottolineare un’altra deviazione rispetto al testo cinquecentesco, da leggersi non in termini d’infedeltà ma piuttosto di testimonianza, soprattutto considerando le cattive condizioni in cui versa, a causa degli insulti conservativi del tempo, quella lunetta sulla parete ovest: la strana coppa che Paola tiene fra le mani, perlopiù identificata come un cantaro per il vino, appare chiaramente nella tela di Boselli come un piccolo braciere acceso e fumante. Un particolare che era forse ancora leggibile al tempo di Boselli e oggi non più, e che contribuirebbe, nel suo valore votivo, a identificare nella mitologica figura la divinità cui la saletta e la poetica impresa erano dedicate, quella Cerere/Demetra sulla quale Paola Gonzaga proiettava il suo dolore di madre offesa.