- Titolo: Fanciullo che dona una moneta a un mendicante cieco
- Autore: Felice Boselli
- Data: 1690-1710
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 90 x 68
- Provenienza: dono del conte Luigi Sanvitale nel 1836
- Inventario: GN 776
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: La natura morta e Boselli
Stracitato (Briganti 1983) ma imprescindibile, il manuale del gesuita Daniello Bartoli, “La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti” (Venezia 1678), per comprendere l’atmosfera e il senso di questa pietistica scenetta che rivela da parte del Boselli, in una delle poche tele che di lui si conoscono di sole figure, la conoscenza e la pratica di quella pittura dei “pitocchi” allora di gran moda soprattutto a Milano.
Del resto la presenza diffusa dei mendicanti, e il problema della loro “gestione”, dunque la vera e propria necessità di organizzare assistenza e carità per limitare i danni sociali che da un diffuso malcontento potevano derivare, erano problemi ben conosciuti alla società consapevole e colta del tempo, anche a Parma.
Le terre e l’economia del ducato infatti erano realmente stremati da una corte che non rinunciava a fasti e guerre, e ai fasti delle guerre, perennemente indebitata e pressocché sul lastrico, un disastro che si aggravava durante i ricorrenti periodi di carestia o pestilenza, al punto che il numero dei poveri aumentava in misura esponenziale, non solo nella capitale ma anche nel contado. Di questa situazione dà conto, in una prosa ossequiosa ma non retorica, precisa e vera, un letterato alla corte Sanvitale: “Ogni mattina per ordine del Sig. Feudatario qui si distribuisce il pane a più centinaia, talora mille, e ne’ tempi carestosi fino a duemila cinquecento mendici accattatori… L’anno poc’anzi caduto (1695), il giorno destinato alla Commemorazione de’ Defunti, essendo qui concorsi quattromila bisognosi, vennero dispensate loro dugento staia di fava, oltre ad una buona porzione di pane per cadauno; spesa calcolata al valore di lire cinquemila” (Fontana 1696, p. 384; Arisi 1973, p. 27).
Se si pensa a quella che doveva essere la realtà tragica di una vita allo sbaraglio in un paese e in un periodo come quello, imbarazza e confonde un po’ la dimensione sorridente e fondamentalmente bonaria (paternalistica?) della visione che di quella condizione umana il Boselli ci propone. Appare quasi come il tentativo di esorcizzare un problema, il coté revanscista e révolté di questo popolo di emarginati, con l’auspicio, nelle migliori intenzioni, che la filantropia e la carità possano, se non risolverlo, almeno tenerlo a bada, e non è casuale che l’immagine della mendicità risulti accompagnata da quella dell’elemosina che la ripara (una gratificazione per la cattiva coscienza dell’epoca?). Ma non bisogna poi chiedere troppo al piacentino, l’Italia non è la Spagna di Cervantes, sono ancora di là da venire i tempi di un Manzoni o di un Verga, e lui non è nemmeno Giacomo Ceruti. Diamogli tuttavia atto di tenere la “finestra aperta”, sia pure appena socchiusa, di dare “visibilità” alla categoria dei vinti e degli umili, cosa che i contemporanei, storici e letterati, perlopiù si guardavano bene dal fare.
Per di più la rappresentazione della povertà non la utilizza come strumento di divertissement, non ne individua un presunto lato comico sul modello della letteratura picaresca, la sua intenzione, il suo sguardo è comunque serio, in qualche modo partecipe. In una dimensione analoga, fra verità e sorridente rassegnazione, si delinea la vasta produzione, perlopiù milanese, di Giacomo Francesco Cipper, detto il Todeschini, che sembra il riferimento più corretto, e contemporaneo e vicino, per l’opera in questione e che, anche su questa base, può situarsi entro il primo decennio del ’700. Al lavoro dell’artista di origini nordiche, di recente esemplarmente illuminato da una mostra interamente dedicata ai protagonisti di questo sottogenere così “lombardo”(Da Caravaggio a Ceruti… 1998), fa riferimento anche la modulazione cromatica “tenebrosa” della tela, la stesura stessa che si fa nelle figure più soda e compatta del consueto. La figura del mendico cieco d’altronde è un topos nella pittura di genere di tutta la seconda metà del secolo, largamente adoperato dai bamboccianti, diffuso dalle stampe dei gueux di Jacques Callot, non privo di una certa dignità legata alla sua menomazione e dunque degno di una pietà più legittima. Fu Salvator Rosa (Satira III, La Pittura), a denunciare con ironia (dei ricchi collezionisti diceva “Quel che aboriscon vivo aman dipinto”) la tendenza diffusa a nascondere il volto crudele e cencioso della società seicentesca sotto le vesti giustificative e tutto sommato rassicuranti nella distanza dell’arte; una tendenza che era diventata una moda: “Sol bambocciate in ogni parte annoveri, / Né vengono ai pittor altri concetti / Che pinger sempre accattattoni e poveri… / Fuor che pezzenti non han altri soggetti”.