- Titolo: Famiglia di Don Filippo di Borbone
- Autore: Giuseppe Baldrighi
- Data: 1757-1758
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 285 x 415
- Provenienza: Firenze, Palazzo Pitti, 1860
- Inventario: Inv. 1149
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Ritrattistica ducale
È nell’intimità di una camera della Reggia di Colorno che Baldrighi ritrae la famiglia di Don Filippo di Borbone, e mette in scena una rappresentazione che sostanzia nel piccolo grande ducato la illuminata marcia di allontanamento del ritratto di Corte da una iconografia magniloquente, palcoscenico dimostrativo e assoluto per una intransigente e totalizzante ufficialità. E firmando in basso, sul pavimento marmoreo, connette così, per sempre, come in un’unica tarsia, il proprio nome alla famiglia ducale, alle sue consuetudini, e alle cose con cui essa intrattiene usuale dimestichezza: le carte da musica e gli strumenti, la racchetta della pallacorda e il cane, il pappagallo, l’orologio e le stoffe.
Altri hanno già rimarcato sapientemente quanto sia “francesizzante” l’insieme (anche Cirillo – Godi 1979b), quanto esso debba ad alcuni modelli d’oltralpe, alle opere di Oudry come a quelle di Boucher, che inviò a Baldrighi un suggerimento a carboncino oggi conservato nel Museo Glauco Lombardi. Ed è vero, come è stato scritto, che la rappresentazione conta pose statuine e un po’ imbambolate, perché tutto sommato il lucido ingegno analitico del nostro artista “è contrario alla pittura d’azione e di movimento” (Riccomini 1977). Ma è, altresì, vero, che lo sguardo scrutatore, illuminato e colto del nostro pittore di Corte struttura per questo assieme di famiglia in un interno, e concerta magistralmente, gruppi di nature morte che gareggiano magnificamente con quelle di un Cristoforo Munari o di un Evaristo Baschenis: gli strumenti musicali lì in terra, a metà fra il tappeto e il marmo; il levriero, “che non sai se è un cane vero o un ninnolo di ceramica” (Riccomini); i gonfi, ampissimi, acconciati, scenici panneggi, alla francese, dello sfondo; e quello splendido, ricordevole, monolito romanico che è Madama Caterina de Gonzales: allegoria di una rigida etichetta che sussiste, sovrintende e sorveglia; anch’ella una natura morta, immobile, in piedi, sul margine e confine, sagoma ombrosa e nigra, monumentale vestimento su cui il pittore esercita il guizzo della vita, e dà corpo alla strabiliante mantiglia.
Le testoline degli astanti segnano una pedante obliquità discendente e ascendente, inclinate quanto basta per contrapporsi alla ermetica fissità profilata della Madama spagnola, “immagine” eccellente, a tutte le altre del quadro superiore. Così questo dipinto, che ci consegna i volti dei piccoli Don Ferdinando e Maria Luisa mentre giocano, di Isabella, che sta mostrando al padre Don Filippo un proprio disegno (era pittrice allieva del Baldrighi), e il padre affettuosamente e regalmente compiaciuto lo indica a sua volta alla moglie Louise-Elisabeth, che alza lo sguardo, poc’anzi intento al chiacchierino. Ultimo quadro eseguito da Giuseppe Baldrighi, che proprio con “vari ritratti in miniatura assai pittoreschi (…) acquistossi la protezione di Filippo I di Borbone”, e che fece poi “moltissimi ritratti per la Corte. Costumava di farli a pastello dal vero, e da questi poi li faceva ad oglio, maniera molto comoda e più pulita, trattandosi di principi, che convien prendere di volo, lasciando stare quando vogliono, e ripigliando quando lor viene il ghiribizzo: cose tutte incompatibili con la natura dell’oglio, oltreché le di lui esalazioni sono poi anche moleste alle narici ducali reali imperiali” (Bertoluzzi).