È nell’intimità di una camera della Reggia di Colorno che Baldrighi ritrae la famiglia di Don Filippo di Borbone, e mette in scena una rappresentazione che sostanzia nel piccolo grande ducato la illuminata marcia di allontanamento del ritratto di Corte da una iconografia magniloquente, palcoscenico dimostrativo e assoluto per una intransigente e totalizzante ufficialità. E firmando in basso, sul pavimento marmoreo, connette così, per sempre, come in un’unica tarsia, il proprio nome alla famiglia ducale, alle sue consuetudini, e alle cose con cui essa intrattiene usuale dimestichezza: le carte da musica e gli strumenti, la racchetta della pallacorda e il cane, il pappagallo, l’orologio e le stoffe.

Altri hanno già rimarcato sapientemente quanto sia “francesizzante” l’insieme (anche Cirillo – Godi 1979b), quanto esso debba ad alcuni modelli d’oltralpe, alle opere di Oudry come a quelle di Boucher, che inviò a Baldrighi un suggerimento a carboncino oggi conservato nel Museo Glauco Lombardi. Ed è vero, come è stato scritto, che la rappresentazione conta pose statuine e un po’ imbambolate, perché tutto sommato il lucido ingegno analitico del nostro artista “è contrario alla pittura d’azione e di movimento” (Riccomini 1977). Ma è, altresì, vero, che lo sguardo scrutatore, illuminato e colto del nostro pittore di Corte struttura per questo assieme di famiglia in un interno, e concerta magistralmente, gruppi di nature morte che gareggiano magnificamente con quelle di un Cristoforo Munari o di un Evaristo Baschenis: gli strumenti musicali lì in terra, a metà fra il tappeto e il marmo; il levriero, “che non sai se è un cane vero o un ninnolo di ceramica” (Riccomini); i gonfi, ampissimi, acconciati, scenici panneggi, alla francese, dello sfondo; e quello splendido, ricordevole, monolito romanico che è Madama Caterina de Gonzales: allegoria di una rigida etichetta che sussiste, sovrintende e sorveglia; anch’ella una natura morta, immobile, in piedi, sul margine e confine, sagoma ombrosa e nigra, monumentale vestimento su cui il pittore esercita il guizzo della vita, e dà corpo alla strabiliante mantiglia.

Le testoline degli astanti segnano una pedante obliquità discendente e ascendente, inclinate quanto basta per contrapporsi alla ermetica fissità profilata della Madama spagnola, “immagine” eccellente, a tutte le altre del quadro superiore. Così questo dipinto, che ci consegna i volti dei piccoli Don Ferdinando e Maria Luisa mentre giocano, di Isabella, che sta mostrando al padre Don Filippo un proprio disegno (era pittrice allieva del Baldrighi), e il padre affettuosamente e regalmente compiaciuto lo indica a sua volta alla moglie Louise-Elisabeth, che alza lo sguardo, poc’anzi intento al chiacchierino. Ultimo quadro eseguito da Giuseppe Baldrighi, che proprio con “vari ritratti in miniatura assai pittoreschi (…) acquistossi la protezione di Filippo I di Borbone”, e che fece poi “moltissimi ritratti per la Corte. Costumava di farli a pastello dal vero, e da questi poi li faceva ad oglio, maniera molto comoda e più pulita, trattandosi di principi, che convien prendere di volo, lasciando stare quando vogliono, e ripigliando quando lor viene il ghiribizzo: cose tutte incompatibili con la natura dell’oglio, oltreché le di lui esalazioni sono poi anche moleste alle narici ducali reali imperiali” (Bertoluzzi).

Scheda di Eleonora Frattarolo, tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere. Il Settecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.