Favole, racconti mitologici, allegorie: su queste definizioni giostra l’ampia letteratura critica sui due tondi entrati in Galleria dalla collezione Dalla Rosa-Prati, famiglia erede di quel Scipione Dalla Rosa riconosciuto come uno dei protagonisti attivi della vita culturale e sociale dell’inizio del ’500 a Parma, probabile tramite del rapporto fra il giovane Correggio e la badessa Giovanna da Piacenza, e soprattutto nipote di Bartolomeo Montini, già committente di Cima da Conegliano per la pala della Cattedrale (vedi scheda n. 127).

Da queste circostanze deriva l’attribuzione, unanimemente accolta, al catalogo di Cima, e una datazione alla seconda metà del primo decennio del ’500, mentre rimane tuttora aperta la problematica sulla tipologia di arredo cui potevano essere destinati come parti decorative: cassone nuziale ovvero strumento musicale a tastiera (in verità entrambe le ipotesi sono da considerarsi congruenti con la specificità semantica dei due dipinti).

Il soggetto narrativo deriva per l’uno (Endimione) da Ovidio (Metamorfosi, XI), per l’altro da Luciano (Dialoghi degli Dei, n. XI), veri e propri livres de chevet per gli ambienti umanisti dell’epoca. La palese ispirazione letteraria trova riscontro in una costruzione delle immagini simbolica e metaforica che ne fa due vere e proprie “poesie” visive. Non tanto e non soltanto per il soggetto trattato: Endimione addormentato visitato da Diana-Luna, amante che scende (letteralmente: nel cielo tuttavia diurno una scia luminosa è la suggestiva traccia del percorso della falce di luna, che ugualmente accende di bagliori le fronde del cespuglio che protegge il giovane) a baciarlo; ovvero la gara musicale fra Apollo e Pan, nel momento in cui Mida (ancora re ma già con orecchie asinine) dimostra la sua scarsità di saggezza lasciandosi ammaliare dal secondo (chiara allegoria del contrasto, tutto rinascimentale, fra i due registri “alto” e “basso” del discorso artistico). Il tema dell’amore (fra sacro e profano) dunque, e della musica, e lo stretto intreccio fra i due, sia nella pratica della società colta del tempo, sia culturalmente per la derivazione di entrambi dal mito pricipe dell’“età dell’oro”, un mondo primigenio e primario ove amore, musica e poesia sono un tutt’uno. È quell’età che Cima mette in scena incrociando i diversi registri del narrare e della metafora (e perciò ad esempio Endimione è pastore e insieme guerriero, identità narrativa e insieme simbolo più vasto del passato classico tout court), attualizzandola: si veda la piccola cappella romanica appena percettibile sul fondo del Giudizio, si apprezzino sopra tutto le coordinate fondamentalmente “venete” del paesaggio (questo sì giorgionesco, ma forse a prescindere da Giorgione, ad esso affine piuttosto per una sorta di consonanza emotiva) che avvolge il bellissimo giovane dormiente.

È l’Arcadia, insomma, che si affaccia da protagonista sulla scena della cultura rinascimentale, in singolare consonanza fra pittura e letteratura (in questa direzione ricchi di riferimenti puntuali si rivelano Battisti 1962; Gandolfo 1978; Humfrey 1982; van der Sman 1986).

Il termine di “poesie” allora, riferito alle tavolette in questione, andrà inteso nel senso in cui Tiziano, in anni non lontani da questi, ugualmente definiva alcune sue opere: quelle che affrontavano tematiche complesse, culturalmente “alte”, e soprattutto quelle che sapevano “tradurre” quei temi con quel “di più” di creatività, di metafora, di condensazione semantica (e naturalmente per noi, interpreti sempre virtuali, un “di più” di enigma), di cui fino ad allora solo i poeti si erano sentiti consapevolmente padroni, in senso specificatamente linguistico quindi. È così che Cima costruisce queste immagini strutturalmente polisemantiche e produttrici di senso, ambigue quanto basta a prestarsi a quella pluralità di letture e di interpretazioni che – come diceva Barthes – fonda del resto le plaisir du texte, e che l’ampia letteratura critica sui nostri tondini testimonia come una sorta di controcanto. Non pretendiamo intanto di esaurirne il senso, anzi percepiamo che la riflessione e la meditazione su questi due piccoli lavori possono essere fonte di continue e rinnovate scoperte ed emozioni: il ramo d’edera (pianta sacra a Dioniso, simbolo d’amore fedele e insieme di poesia in quanto anche con essa si intreccia la corona del poeta) che si avvolge intorno al tronco d’albero dietro la testa di Endimione e sembra salire verso la luna; la cura davvero calligrafica con cui Cima cura ogni particolare, dai fili d’erba alle acque scintillanti del ruscello alle foglie baluginanti dei cespugli… Certo un’abilità da miniaturista, da conoscitore dell’arte fiamminga, da botanico anche (tutto questo è stato detto), o forse, ancora una volta, più da poeta, per il quale ogni sintagma, ogni preposizione, accento, virgola, rivestono pari importanza e fanno parte dell’assoluta unicità del testo.

Scheda di Luisa Viola tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.