Il Ricci considera queste due tavolette “un frammento di qualche mobile o sportello d’organo”; il Quintavalle ne evidenzia la struttura di due ante e ne riconosce, oltre alla derivazione vicentina dal Montagna, qualche ricordo lombardo dal Foppa e dal Civerchio, mentre per la Ghidiglia Quintavalle l’artista risulta più convincente proprio quando – come, in quest’opera – “non si sforza di parlare aulico, ma mescola al linguaggio raffinato veneto ed ai ricordi lombardi, qualche spontanea cadenza dialettale”. Cirillo ne afferma con certezza la provenienza dall’organo di San Giovanni, intuendo la presenza di uno strumento di dimensioni adeguate.

Date le dimensioni delle ante bisognerebbe pensare alla chiusura superiore di un piccolo organo portativo, cui si addirebbe anche il soggetto, tutto impostato su un basamento a finti marmi su cui poggiano ritti o a cavalcioni quattro putti completamente ignudi che, senza imbarazzo, impugnano l’archetto facendolo scorrere sulle corde del cordofono e di uno strumento simile alla ribecca o alla viella, suonano il flauto e battono sul tamburello, impugnano il liuto, strumenti ricorrenti anche nelle tarsie dei cori parmensi. La tematica si rivela adatta anche a due sportelli di mobile, magari atto a conservare le partiture musicali abitualmente eseguite; infatti le borchie simmetriche in ferro a sei petali potevano presumibilmente sostenere un leggio o mimetizzare una serratura, secondo un’impostazione analoga agli sportelli dell’armadio portareliquie, che sovrasta l’altare, nel santuario di San Colombano annesso alla sagrestia, dovuti a Michelangelo Anselmi, attivo in San Giovanni dal 1516.

Lo schema anatomico da genietto classico, le grosse teste ricciute, le guance rigonfie e le pose sciolte e ancheggianti dei putti, collocati in simmetria con i due in piedi al centro, rivelano una naturalezza inedita nel Caselli che si sottopone ancora a modelli veneti, ma introduce una parlata sapida di gusto arcaizzante sintonizzata sulla Lombardia, meno controllata e di tono quasi monocorde fino a suggerire un trompe-l’œil di statuaria impostazione. Un lavoro così contenuto si potrebbe datare al 1499 – anno dell’Adorazione dei Magi per la stessa chiesa dove, però, il registro compositivo è assai più complesso – oppure ipotizzare un’attività del Caselli dopo l’esperienza espletata nel 1508 da Cesare Cesariano nella volta della grande sagrestia commissionatagli dal padre Graziano da Milano, dove abbondano putti e angioli monocromi nei piedritti degli archi e ai lati delle Virtù teologali e cardinali che mostrano, unitamente a tutta la decorazione, una chiara appartenenza alla cultura lombarda improntata a Bramante e Leonardo (Adorni 1979, p. 87), che il Caselli declina qui in un tono meno aulico. Occorre ricordare che il Caselli “meno rituale” si rivela assai importante anche per la definizione dei moduli pittorici adottati dal Maestro Sanvitale nell’omonimo Libro d’Ore (cfr. Zanichelli 1994d, pp. 39-61)

Scheda di Lucia Fornari Schianchi tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.