- Titolo: Dossale di San Pietro martire
- Autore: Bottega Erri
- Data: XV secolo
- Tecnica: Tempera su tavola
- Dimensioni: San Pietro martire: 90 x 38 (figura intera); Storie del santo: 55 x 30 ciascuna; San Pietro a colloquio con il Crocifisso circondato dalla famiglia Colombo: 55 x 38
- Provenienza: Modena, chiesa di San Domenico (fino al 1708-1710); Colorno, Palazzo Ducale “presso S.A.R. l’Infante Duca di Parma” (Tiraboschi 1786); acquistato da Tacoli Canacci; chiesa delle Domenicane di Fontanellato (dopo il 1786); in Galleria nel 1868
- Inventario: GN499
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: La pittura emiliana 1200-1500
Il dipinto proviene dal convento dei Cappuccini a Parma, “ove sovrastava una porta in fondo ad un corridoio” (Quintavalle 1939a).Corrado Ricci (1896) lo assegnava alla scuola cremonese, genericamente; Ottaviano Quintavalle (1939a), sulla stessa scia, lo riferiva a un seguace di Bonifacio Bembo e addebitava l’apparenza sospetta al restauro del 1896 di Frenguelli, che a suo dire sarebbe intervenuto “purtroppo, non soltanto nella parte lignea che ha una decorazione gotica aggiornata”.
La prima notizia risale al Vasari (1568) che menziona quattro tavole dipinte (poi riconosciute agli Erri) nella chiesa di San Domenico di Modena: “Fra i Modenesi ancora sono stati in ogni tempo artefici eccellenti nelle nostre arti, come si è detto in altri luoghi, e come si vede in quattro tavole, delle quali non si è fatto al suo luogo menzione per non sapersi il maestro; le quali cento anni sono furono fatte a tempera in quella città, e sono, secondo quei tempi, bellissime e lavorate con diligenza. La prima è sull’altare maggiore di San Domenico, e le altre alle cappelle che sono nel tramezzo di quella chiesa”.
Si trattava delle quattro tavole, o ancone, che la chiesa domenicana esibiva nella parte absidale fino al 1602, quando, in seguito alle modificazioni strutturali operate in ossequio alla nuova liturgia tridentina, la prima di esse venne trasferita in fondo al coro, come documenta il Vedriani (1662) che ricorda le altre tre ancora nel tramezzo della chiesa (vale a dire presso il pontile divisorio fra zona presbiteriale e zona per i laici, elemento sopraelevato rispetto alla pavimentazione dell’edificio tanto da ospitare, sotto, la cripta). Erano esse: “quella di S. Tommaso, di S. Pietro Martire e S. Vincenzo Ferrerio improntate tutte dalle attioni, e miracoli suoi”. Dunque l’opera oggi a Parma, ancorché di diversa datazione, faceva corpo unico con le altre, similari per conformazione, entro un campo della chiesa ben delimitato, tanto da costituire un continuum visivo e votivo di grande impatto sul pubblico dei fedeli, chiamati a leggere la storia dei tre grandi predicatori domenicani attraverso la forza espressiva delle rappresentazioni episodiche dei rispettivi racconti monografici. Si trattava dunque di un caso di grandiosa muta predicatio che veniva ad affiancarsi alla predicazione orale domenicana, nella quale le immagini assumevano un ruolo di azioni corroboratrici in virtù del loro potere emozionale ben più persuasivo delle parole, così come avevano ritenuto il francescano Bonaventura e il domenicano Tommaso d’Aquino nel solco della teologia medievale.
Ora, se solo per quanto riguarda l’ancona dell’altare maggiore abbiamo una documentazione che certifica Bartolomeo degli Erri esecutore, con una serie di pagamenti che si protrassero per oltre tredici anni dal 1467 (anno del contratto con i padri di San Domenico), l’attribuzione delle altre è invece stata discussa esclusivamente su basi stilistiche, con l’aiuto di raffronti araldici e paleografici per quanto riguarda l’esatta decodificazione di stemmi e iscrizioni. La prima ipotesi per il nome dell’artefice riguarda un certo Andrea Campana (in effetti intagliatore stando alla cronaca modenese del Lancillotti), nome che venne sciolto sulla base della sigla A.C. che compare accanto a uno stemma nobiliare nella tavoletta con San Pietro a colloquio con il Crocifisso: dal Tiraboschi (1786) al Ricci (1896) la proposta prese corpo concreto fino al Venturi (1900) che addirittura dubitò della provenienza del dossale da San Domenico di Modena proponendo, peraltro su basi comparative, un’attribuzione in favore di Jacopo Loschi. Si deve comunque a quest’ultimo, in un intervento successivo (1909), non solo la revisione della propria opinione in merito all’esatta origine dell’opera, ma lo scioglimento della sigla in quella del committente, Antonio Colombo, mercante di origine parmense che nel 1460 aveva stipulato un contratto con Bartolomeo degli Erri per la decorazione della volta della chiesa domenicana. Ma Ottaviano Quintavalle (1937) con la lettura del cartiglio che compare nell’episodio della nomina di Pietro a inquisitore, ritenuta allora erroneamente la Canonizzazione del santo, proponeva l’assegnazione a tale Simone Lamberti modenese creando così un nuovo capitolo non meno confuso del precedente, giunto fino alle pagine del Longhi, del Ragghianti e del Volpe.
Non c’è dubbio che il dibattito critico su questo dossale abbia appassionato nel tempo i numerosi studiosi già citati, ora propensi a fare riferimento ad Agnolo degli Erri (Longhi 1940), ora a Bartolomeo (Chiodi 1951), ora a un maestro a loro prossimo, ma di più arcaica formazione (Volpe 1972), sulla scorta delle argomentazioni dello stesso Quintavalle del 1937, che aveva riconosciuto nell’artefice del dossale un maestro modenese antecedente agli Erri stessi. Più recentemente Ferretti (1985), rifiutando la fatidica scritta ma accettandone la data 1450 quale post quem dell’esecuzione, ha proposto per tutto il complesso delle ancone domenicane un’origine univoca da una medesima bottega, al lavoro per un arco di almeno trent’anni.
Una lettura più chiara del dossale veniva intanto dalla ricomposizione dei comparti su di un unico fronte (dopo il restauro curato da Nonfarmale nel 1981) su tre registri di sei tavole ciascuno, recanti al centro lo scomparto con la figura del santo in alto e lo scomparto con San Pietro a colloquio con il Crocifisso, in basso.
La fonte iconografica ispiratrice delle storiette è ravvisabile nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, pur con qualche libertà di sequenza narrativa dovuta anche al ripetersi di miracoli dello stesso tipo. Sicuramente l’ordito della ricomposizione non poteva non tener conto delle vedute architettoniche delle tavolette e delle prospettive in esse disegnate, tanto precise quanto eloquenti per una giustapposizione spaziale degli elementi del complesso secondo un allineamento dei punti di fuga lungo un asse centrale.
Secondo la ricomposizione proposta in Galleria, viene prospettata, privata della originaria carpenteria che doveva contenerla, la seguente teoria da sinistra a destra partendo dall’alto: Il piccolo Pietro disputa con lo zio e altri eretici; Vestizione di san Pietro; San Pietro invoca la Madonna per trovare conforto; Penitenze corporali e digiuni del santo; San Pietro a Cesena risana un giovane che si era amputato un piede per aver colpito la madre; Il santo risana una monaca; Il santo fa fuggire il demonio presentando l’ostia benedetta; Il santo risuscita un bimbo nato morto; San Pietro risana un personaggio illustre; Il santo risuscita un bimbo finito nel fuoco; Il santo, mentre predica, doma un cavallo impazzito e ridona la parola a un ragazzo muto; Sulla piazza di Sant’Eustrupio, a Milano, san Pietro risana una donna paralitica; Papa Innocenzo IV nomina inquisitore san Pietro; Il santo riceve il messaggio dal papa e oscura il sole cocente durante una predica; San Pietro parte per la sua missione di inquisitore; Martirio del santo a seguito di un’imboscata; Esequie del santo; Miracoli alla tomba di san Pietro.
Il dossale oggi a Parma prospetta quel gusto ampiamente divulgato alla metà del ’400, aderente al nuovo ordine rinascimentale nelle architetture e nei particolari di ambientazione, non però “organizzati in un dettato coerente e moderno” (Benati 1988) quale quello dei grandi maestri centroitaliani presi a modello figurativo. Anche se intriso di suggestioni arcaiche fino alla riproposizione di brani trecenteschi in taluni particolari delle storiette, il dossale rappresenta un momento di felicissima riflessione sul nuovo lessico narrativo e simbolico della pittura moderna, squadernata attraverso vedute urbane che avranno del resto una lunga tradizione nel territorio modenese con l’operato dei Lendinara.
Il filo del racconto scorre entro le forme tardogotiche con annotazioni realistiche di pungente rilievo; la cultura che le sottende è forte e nello stesso tempo complessa, con un’ascendenza veneta di impronta vivarinesca e belliniana e non senza la mediazione di Ferrara. Non c’è dubbio che la qualità pittorica si evidenzi con margini di grande libertà espressiva laddove il reale, anche quando documentato, altro non sintetizza se non forme urbane conosciute o vedute, senza la finalità della riproduzione documentaria o mimetica altrimenti così vicina alla tarsia.
Se la datazione più probabile per questa opera appare a tutt’oggi quel 1450 interpretato dal Quintavalle, resta ancora dubbiosa la figura dell’artefice che, pur muovendosi entro un ambito consono agli Erri, sembra anticiparne le forme a cominciare dal polittico per l’Ospedale della Morte (Modena, Galleria Estense), dipinto fra il 1461 e il 1466 dai due fratelli Agnolo e Bartolomeo.
Il dossale di San Pietro appare infatti non omogeneo con le altre ancone domenicane, di datazione più tarda e dotate di maggiore equilibrio, finanche più normalizzate negli assetti compositivi e narrativi.