• Titolo: Dispensa con selvaggina, punta di formaggio, limoni, gatto, colomba e porcellino d’India
  • Autore: Felice Boselli
  • Data: 1690
  • Tecnica: Olio su tela
  • Dimensioni: cm 137 x 163
  • Provenienza: acquistato dai fratelli Giovanni e Odoardo Rossi nel 1833
  • Inventario: GN 704
  • Genere: Pittura
  • Museo: Galleria Nazionale
  • Sezione espositiva: La natura morta e Boselli

Pur se appare chiaro che l’area semantica di queste tele di Felice Boselli (per le quali le misure pressoché identiche, la medesima provenienza e le stringenti affinità linguistiche e stilistiche suggeriscono una lettura in parallelo), non è quella della vanitas, tuttavia qualcosa di quell’aura fiamminga e lombarda permane se in esse riscontriamo elementi iconografici di tradizione simbolica quali la colomba con la spiga di grano (consueto emblema beneaugurante di fecondità e pace), il porcellino d’India (di fertilità), e la civetta.

Più intrigante quest’ultima, motivo ricorrente, e dunque per ciò stesso significante e non casuale, là in alto che ci fissa come un incipit o un esordio, certo un avvertimento.

E se – come lucidamente avvertiva Eugenio Battisti (1989, in particolare pp. 27 sgg.) – lo sguardo ermeneutico del presente deve trovare una “chiave” per tentare di interpretare una dimensione intellettuale e immaginativa così lontana dalla nostra pratica comunicativa, mi pare che proprio il rapace notturno possa per noi svolgere questa funzione. Il suo ruolo non è evidentemente quello di portatore di sventura, sarebbe fuori luogo e in contrasto sia con la colomba che con l’ostensione quasi votiva degli alimenti, è il caso dunque di ricordare che la civetta è attributo della sapienza di Minerva, e animale dotato di uno sguardo saggiamente guardingo, dunque chiaroveggente: nel mito è la civetta a denunciare la golosità di Persefone che, assaggiando il melograno, si condanna a restare nell’Ade, nel nostro contesto può dunque significare moderazione. Non si dimentichi infatti che l’eccesso e la grande bouffe appartengono alla dimensione grottesca del Carnevale e del Paese di cuccagna, al registro comico del Gargantua di Rabelais o del Margutte di Luigi Pulci, apparirebbero dunque incongrue a una committenza aristocratica e colta quale quella cui si rivolgeva Boselli, rappresentata dai Sanvitale, dai Meli Lupi di Soragna, dai Trotti e Arese di Milano (nelle cui collezioni sono testimoniate presenze di ritratti e nature morte, cfr. Geldo, in Da Caravaggio a Ceruti 1998, p. 107 e Arese 1967). L’invito alla frugalità invece, di contro all’ingordigia e alla ghiottoneria con le loro implicazioni di volgarità e di dissipazione, era radicato nella tradizione letteraria classica, poggiava sull’auctoritas di Virgilio e Orazio, certo autori cari a un pubblico di formazione umanista.

L’apprendistato del piacentino fra il 1665 e il 1669 proprio a Milano, presso la bottega di Giuseppe e Michelangelo Nuvolone, parenti del più famoso Panfilo (Carasi 1780, p. 90), il suo rapporto documentato con il mercato artistico di quella città in cui fioriva la pittura dei “pitocchi”, testimonianza di una sensibilità sociale memore ancora dell’insegnamento morale dei Borromeo, rendono fragile una lettura del suo lavoro in chiave di superficiale esaltazione della ricchezza delle mense, della dieta ipercalorica. La stessa descrizione di un pranzo di gala, dunque avvenimento eccezionale, offerto alla famiglia ducale nel 1695 dai Sanvitale (Fontana 1696, pp. 387-406, proposta, ma in altra chiave, da Arisi 1973, pp. 23-28) va letta piuttosto all’interno di un articolato percorso che esalta il fasto necessario, ma nell’eleganza e nella discrezione, delle tavole dei signori, opposte alla volgare “sbracatura” delle tavole dei servi (“Non si mangiava, si divorava; manco si beveva; perché si tracannava…”) dei quali viene spregiata e condannata la tendenza alla crapula, e si conclude, registrando una visita al convento cappuccino di Fontevivo, con l’elogio della frugalità della mensa dei frati, e citando il Tasso pastorale dell’Arcadia felix. Un’interpretazione , quella più “facile”, che si rivela dunque incongrua agli stessi contemporanei, specie se confrontata con quella che era la situazione del paese “reale” travagliato per tutto il secolo (cfr. Camporesi 1978) da pestilenze, carestie, da torme di pezzenti e vagabondi affamati. Una situazione sociale di disagio che rendeva la “dieta” e le abitudini alimentari da questione puramente personale e privata a questione ideologica: se da un lato i maggiori ordini monastici sentono la necessità di richiamare alla continenza i propri componenti, Tommaso Campanella nella Città del sole (1602) elabora per il suo utopico popolo delle regole alimentari quasi da dieta “dissociata” ma funzionali alla salute, anche morale, e alla longevità, e consiglia una cucina “solare” che segua le stagioni dell’anno.

Sant’Ignazio da Loyola poi, e attraverso l’insegnamento e l’influenza gesuitica tutta la stagione controriformata, non richiama alla pratica del digiuno per tutti, sarebbe anche quello un eccesso e lo considera riservato ai santi, ma alla misura, alla qualità e alla delicatezza delle mense, persino con un che di elegante snobismo intellettualistico, predicando contro le animalesche abbuffate conventuali (cfr. Camporesi 1985, in particolare pp. 171-213). Siamo inoltre al di fuori anche dal rituale cortigiano dei banchetti di decine di portate diverse, e difatti il Boselli non compare nelle collezioni farnesiane (cfr. Bertini 1987), il collezionismo ducale, che si era precocemente aperto alle cucine e ai mercati fiamminghi tardocinquecenteschi di Joachim Beuckelaer (così importanti, come si sa, per le prove di “genere” di Vincenzo Campi, Bartolomeo Passerotti e forse anche Annibale Carracci), sembra chiuso e sordo alla dimensione terragna, domestica, delle cucine e delle dispense padane. Neppure per il Palazzo di Colorno, dove pure è testimoniata la presenza abbondante di “paesi”, “marine”, “fiori”, “battaglie”, e, tutt’al più, “trofei di caccia” o strumenti musicali. Soggetti tutti che evidentemente, pur appartenendo a generi minori e dunque destinati alle residenze “degli svaghi” piuttosto che a quelle ufficiali, alle stanze d’abitazione o di servizio piuttosto che al prestigio dei saloni di rappresentanza o della Galleria (Perini 1993, in particolare pp. 390-391), apparivano comunque dotati di un’aura più nobile, aulica, degna rispetto a quelli largamente prevalenti nella produzione del nostro.

Soltanto nell’Inventario del Palazzo di Colorno del 1734 (Bertini 1987, p. 291) compare il nome di “Boselli Parmigiano”, ma come autore di due quadri, nn. 37-38, “con cornice dorata, dipintovi fiori diversi”, che dimostra perlomeno il tentativo del piacentino di aprirsi ad altri generi e di attingere fasce di mercato più ampie. Così Boselli quando intorno al 1671 apre bottega a Parma, e vi si trasferisce inizialmente anche per fuggire la concorrenza del più anziano Bartolomeo Arbotori che dominava il mercato della città natale per poi ereditarne i clienti alla morte (Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Documenti…, f. 36, documenta che “Tenne scuola in patria e in Parma”), lavora essenzialmente per una clientela che appartiene all’aristocrazia del contado o alla borghesia cittadina delle professioni. Non solo nel ducato, ma anche fuori, data la situazione di un mercato artistico in forte crescita (cfr. Perini 1993), capillare, entro il quale le botteghe degli specialisti si servivano probabilmente, per offrire i loro prodotti, di mercanti itineranti o mediatori non strettamente professionali, che talvolta erano anche artisti. Si rivolge cioè a un pubblico che non appartiene alla lontananza straniata della corte e che non manca di coscienza sociale per necessità: o perché vive sulle terre o perché vive nella città. L’abbondanza che illustra Boselli è quella delle dispense (pavimenti in terra battuta, gradoni in pietra o in terra per disporre volatili e ortaggi, uncini cui appendere cacciagione e pollame o quarti di macelleria, orci in terraglia per la conservazione del vino o dell’olio, voltoni in pietra con finestre aperte per far circolare l’aria, paesaggi padani in lontananza, il gatto di casa che fa capolino o addenta il quarto di maiale…), la sobrietà è quella che deve sovrintenderne all’uso, che deve sorvegliare la mensa. L’abbondanza e la varietà, implicito elogio e ringraziamento alla divina Provvidenza, illustrano la fertilità delle terre del proprietario, la sua capacità di amministrarle, la sua buona conduzione dell’economia familiare, è legittima, e illumina il committente come esemplare “padre di famiglia”. E difatti: “… Sì che non dovete meravigliarvi s’anch’io ad imitazion loro, potrò caricarvi la mensa di vivande non comprate; le quali se tali non saranno quali voi altrove siete solito di gustare, ricordatevi che siete in villa, ed a casa di povero oste vi siete abbattuto. Estimo, diss’io, parte di felicità il non essere costretto di mandare a le città per cose necessarie al ben vivere, non che al vivere, de le quali mi pare che qui sia abbondanza. Non occorre, diss’egli, ch’io per alcuna cosa necessaria o convenevole a vita di povero gentiluomo mandi a la città, perciocchè da le mie terre ogni cosa m’è, la Dio mercè, copiosamente somministrata; le quali in quattro parti o specie, che vogliam dirle, ho divise. I frutti dei campi arati e lavorati, l’orto e il frutteto, l’allevamento degli animali, la caccia…” (Torquato Tasso, Il padre di famiglia, in Flora 1935, p. 92).

Dai campi arati e lavorati arrivano le rape e le cipolle, dall’orto e dal frutteto i sedani e i limoni e le mele, dall’allevamento il pollame il vitello e il maiale, e attraverso la trasformazione del latte il parmigiano (così vero, così locale), dalla caccia,  diletto privilegiato dall’aristocrazia terriera, le lepri i fagiani le beccacce, e magari dai nostri Appennini i funghi porcini, peraltro considerati alimento “di magro”. Il vocabolario alimentare che Boselli continuamente ripropone è strettamente padano (come d’altronde nelle cucine di Baschenis, cfr. Evaristo Baschenis… 1996, pp. 123-128), sembra modellato sull’economia della “villa” appunto, e quando, in altre opere, comprende ad esempio il pesce è piuttosto per ragioni di osservanza del “precetto di magro”, che legittima dunque e rende necessario il ricorso al mercato o alle botteghe. I suoi lavori sono il risultato di un’“ars combinatoria” che trasceglie continuamente da un paradigma lessicale abbastanza ristretto figure e motivi che vanno a costituire testi fra loro uguali e diversi, frutto di variazioni continue sul tema. Questa modalità operativa è la stessa che sovrintende alla fase di elaborazione e formazione di questo suo precipuo idioletto, il che rende naturalmente difficile, e forse inutile, riconoscergli un vero e proprio “maestro”. L’impressione è che il piacentino estrapoli qua e là (da quello che vede nelle botteghe, presso i mercanti, sulle stampe, durante probabili viaggi, in collezioni pubbliche o private cui poteva avere accesso in qualità di artista, e nella situazione di un mercato come si è detto fortemente ramificato) ciò che gli serve, ciò che gli interessa.

Così ad esempio per i bacili che caratterizzano certe opere giovanili e che derivano da Arbotori, come la punta di formaggio, così per il pollame spennato che ricorda le cucine di Baschenis, così per la lepre dal pelo argentato e piumoso ovvero per la varia selvaggina che sembra servire come esercizio di varietà e abilità cromatica che rimanda agli esempi di Jan Fyt e, specie nelle opere più mature, al bolognese Crespi, così per il porcellino d’India, già ricorrente nelle tele del genovese Giovanni Agostino Cassana e in quelle del fiorentino Domenico Bettini (attivo presso la corte estense e, come fiorante, pure per i Farnese), o per il gatto che si insinua annusante come in Frans Snyders, o ancora per la testa scorticata di capretto già in Beckelauer e in Vincenzo Campi, così infine per la sporta in cannucciato di paglia che troviamo quasi come sigla nelle tele di Arcangelo Resani (e che forse entrambi desumono dal cosiddetto “pittore di Rodolfo Lodi”). Su questa base varia il formato, anche se tende a privilegiare quello monumentale come Baschenis, varia la qualità e la quantità delle figure probabilmente su specifica richiesta dei committenti (e se le nature morte più “severe” fossero state quelle meno pagate, che capitombolo per certe congetture interpretative…). Proprio il formato medio, rispetto ad esempio alle tele tuttora conservate presso la Rocca Sanvitale di Fontanellato, che sono assai più imponenti, porta a ritenere per le nostre, delle quali non è nota la provenienza originaria, che fossero destinate a una committenza medio-alta, e tale considerazione inoltre, unita alla struttura compositiva ancora sostanzialmente piramidale, le situa entro la produzione degli Anni novanta del secolo (Arisi 1973, pp. 66-67), in quanto nella fase più matura la macchina compositiva e combinatoria tenderà a diventare sempre più complessa e ridondante.

Mentre resta dunque allo stadio di pura ipotesi che facessero anch’esse parte del nucleo di opere già a Fontanellato, risulta di qualche interesse la lettura degli Atti dell’Accademia parmense riguardanti l’acquisto. In tale occasione infatti vengono offerte dai fratelli Rossi, insieme alle nostre, due tele di formato più piccolo e d’analogo soggetto, che vengono rifiutate ma che evidentemente restano sul mercato: potrebbero essere (cfr. Barocelli 1996, p. 100) quelle, ridotte nel formato, presenti nella Pinacoteca Stuard, ed entrate nella collezione prima del 1834. Sono infatti assai vicine a queste sia nella struttura compositiva che nelle scelte lessicali (tornano elementi in comune quali le rape, i sedani, i limoni, la testa staccata di vitello e il gatto), pur se più vicine ai modi dell’Arbotori (a quest’ultimo infatti sono state date da Ravelli, in Naturaliter… 1998, pp. 256-257) e dunque coerenti con una datazione agli Anni ottanta-novanta del secolo. Se un accento realmente “goloso” (cfr. Riccomini 1977, pp. 32-34) aleggia su queste dispense, lo si ritrova nel carattere pastoso polposo e filante della pennellata veloce e densa, nel ductus che utilizza il colore a grumi, talvolta quasi “materico”, per comunicarci la qualità fisica tattile del cibo: la buccia lucida e rugosa dei limoni, la consistenza morbida e untuosa del grasso, la percezione setolosa della pelle della testa di vitello ovvero, in altri casi, la secchezza traslucida di una testa di agnello scorticata, la superficie essudante del formaggio, la scontornata viscidezza delle frattaglie appese (portandole in primo piano: un brano di carne violentata come in Francis Bacon?). L’illusionismo mimetico del resto costituisce una sorta d’istanza primaria per il “simposio” in pittura, lo chiariva acutamente, more solito, già nel 1959 Gombrich: “Ma rispetto ad altri metodi di esibire un virtuosismo manuale, la natura morta segna molti punti di vantaggio, perché corrisponde ai semplici piaceri dei sensi.

Occorre forse rammentare agli abitanti delle città del secolo ventesimo i quali possono comprare fiori splendidi o vivande prelibate in ogni stagione, qual grazia magica assumevano quei dipinti di frutta o di fiori che rallegravano la sala da pranzo tutto l’anno con doni che la natura elargisce, invece, solo per un periodo circoscritto. Questi cibi o fiori rari che sono una gioia per l’occhio, recano, anche, allo spettatore la memoria di feste godute in passato e la speranza di altre a venire” (Gombrich 1971, p. 158). Quella stessa forza d’illusione, piacevole inganno, che allo spettatore complice può rivelare un risvolto etico: “Poiché ogni natura morta ha in sé implicito il motivo della vanità, ben visibile per chi desidera cercarlo. Lo spettatore che cercasse d’afferrare il frutto succulento o l’invogliante calice, s’imbatterebbe in una superficie dura e fredda. Più è riuscita e abile l’illusione, e più sarà efficace, a ben vedere, il monito implicito sulla differenza tra la sembianza e la realtà. Qualsiasi natura morta dipinta è ipso facto anche una ‘vanità’” (ibidem, p. 159).

Bibliografia
Atti… 1833-1836 (1833, p. 139);
Pigorini 1887, p. 19;
Ricci 1896, p. 356;
Copertini 1935, p. 106;
Quintavalle A.O. 1939, p. 283;
De Logu 1962, pp. 73, 178;
Ghidiglia Quintavalle 1964b, pp. 27-28, 91;
Ghidiglia Quintavalle 1971a, p. 236;
Arisi 1973, pp. 197-198;
Consigli Valente 1987, p. 112;
Biagi Maino 1989, pp. 387 sgg., 398;
Arisi 1993, pp. 200-20;
Arisi 1995, p. 69;
Baldassari 1998, pp. 111, 130;
Benati, in
Cristoforo Munari… 1999, pp. 162-163
Restauri
1958-59
Mostre
Parma 1964;
Milano 1999 (inv. 704);
Reggio Emilia 1999 (inv. 704)
Scheda di Luisa Viola, tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Seicento, Franco Maria Ricci, Milano, 1999.