- Titolo: Deposizione
- Autore: Bartolomeo Schedoni
- Data: 1613-1614 circa
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 228 x 283
- Provenienza: Fontevivo, chiesa dei Cappuccini; Accademia, 1806; poi in Galleria
- Inventario: GN 120
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Bartolomeo Schedoni
- Sezione espositiva: Gli emiliani 1500-1600
Quest’opera, unitamente alle altre due (inv. 132, vedi scheda n. 474 e inv. 133, vedi scheda successiva) e ad altre oggi conservate a Capodimonte, al Louvre o disperse, faceva parte di un importante investimento ideologico-religioso effettuato da Ranuccio I a partire dalla prima domenica di Avvento del 1606, giorno di collocazione della prima pietra, sul territorio di Fontevivo. Qui fece erigere, per l’Ordine cappuccino che si era insediato a Parma verso il 1566, prendendo possesso nel 1574 del complesso di Santa Maria Maddalena, un nuovo convento con annessa chiesa, il cui cantiere seguì con interesse.
Il duca probabilmente, attraverso la presenza dei frati, da sempre in contrasto con il clero secolare dagli interessi coincidenti con la feudalità locale scalpitante nei confronti del potere ducale, intendeva sviluppare un più diretto controllo del territorio, rinnovare con l’assistenza spirituale e caritatevole l’impegno morale della chiesa e trovare insieme una più adeguata risposta nella fede e nel sostegno di questo Ordine religioso ai suoi più intimi problemi, alle manie, alla mancanza di un erede: questioni che accompagnano Ranuccio I per l’intera esistenza, passata in gran parte a fondare cantieri, ma anche a inseguire insane visioni e presunti tradimenti (cfr. Dall’Acqua 1978; e Dall’Acqua – Mondelli 1995).
A questo unitario progetto corrispose con pienezza un pittore come Bartolomeo Schedoni che, dopo i primi anni modenesi, si stabilì a Parma legandosi definitivamente alla Corte farnesiana dal 1607, a seguito delle suppliche del padre “mascararo” già alle dipendenze del duca come registrato nei Mastri del 24 febbraio 1594 e con successiva annotazione del 1597, da cui si ricava testimonianza che il figlio Bartolomeo, diciannovenne, espletava con lui le prime esperienze (Ruolo n. 8, 1 marzo 1597, in ASP, Ruoli farnesiani) per le quali si pagavano al padre venti soldi al mese “per la spesa cibaria” di Bartolomeo “qual serve S.A. per pittore”. Rapporto che sfocerà in un accordo di esclusività. Basta ricordare l’episodio per la pala del Duomo di Fanano iniziata su commissione di Magnanino Magnanini e sequestrata dal duca, in quanto ogni suo lavoro per altri doveva essere autorizzato. Ranuccio ne valuta l’opera con grande considerazione affidandogli diversi lavori e per Fontevivo un vero e proprio ciclo pittorico, un programma iconografico di grande intensità e valore, che costituisce un caso davvero eccezionale di mecenatismo anche per la Corte parmense, che pure fin dagli esordi aveva puntato sulle imprese artistiche e il collezionismo per avvalorare il suo potere politico.
Il duca si avvale per il suo progetto, pur avendo a disposizione altri artisti, del miglior interprete e dell’artista più intenso e, forse, più diligente nel rispetto delle consegne, di cui potesse disporre. E così, infrangendo le austere regole cappuccine, che preferivano ambienti spogli, severi, rigorosi, essenziali, Bartolomeo Schedoni, poco più che trentenne, ma ormai pienamente maturo nello stile e nell’interpretazione, sviluppa una serie di tematiche con un intendimento inedito, che lo confermerà come uno dei più grandi protagonisti della stagione “naturalista” nella Parma di primo ’600, che potrebbe assumere come emblema proprio questa Deposizione e il suo pendant con Le Marie al sepolcro originariamente collocati a sinistra e a destra dell’altar maggiore.
Un tema diffusissimo in pittura e a tutte le latitudini occidentali a partire dal Medioevo, che, con questo quadro, si rinnova e si amplia, dopo il dolente Compianto in terracotta di Guido Mazzoni per i francescani (Busseto, chiesa di Santa Maria degli angeli) dopo il radioso e raffaellesco impianto scenico di Francesco Francia dipinto per i benedettini di San Giovanni e dopo quel doloroso emotivo consonante contatto fra la Madre e il Figlio che Correggio compone per la cappella Del Bono, segnando di luce naturale e simbolica un terreno aspro, brullo, quasi monocromo, su cui si staglia il gruppo dei pleurants e la Madonna dal corpo molle e dal volto cinereo che sostiene il corpo già livido del figlio, ripreso quasi un momento prima del trapasso, quando le carni, ricomposte su un bianco lenzuolo, sono ancora tiepide, mentre la Maddalena si richiude in un pensoso atteggiamento. Suggestioni che Schedoni non poteva dimenticare e che sicuramente si porta dentro come un rovello; come poter dipingere dopo quella sublime riflessione sul dolore e sulla morte un’altra Deposizione che risultasse altrettanto emotivamente accecante e coinvolgente? Ebbene a distanza di circa ottant’anni da quell’exemplum inimitabile, e di non molti anni dalla successiva verticale Pietà di Annibale (1585) dipinta per l’altar maggiore dei cappuccini di Parma, Schedoni non rinuncia al confronto e si misura con una tela di gran lunga più grande, sempre di taglio orizzontale e l’abbina alle Marie al sepolcro anziché a un Martirio di santi.
Cambia il ritmo, la scena, l’impaginazione, il registro cromatico, le luci, le positure, i gesti: tutto si fa più teatrale e più reattivo e partecipe. Non c’è silenzio, isolamento nel dolore, ma un dialogo disperato, una confutazione affannata. Il corpo del Cristo è ancora muscolarmente vigoroso, la testa ripiegata all’indietro è sostenuta da un san Giovanni, dalla cui bocca sembra uscire un lamento; è come se un debole sonoro accompagnasse la scena, forse una lamentatio sul Cristo morto, e la Madonna si interroga, cerca conforto e spiegazioni in quel gesto indicatore di Nicodemo, mentre san Giuseppe d’Arimatea sfila a strattoni quel bianco lenzuolo disteso sotto il corpo prima di adagiarlo nel sepolcro. E la Maddalena esteriorizza la sua disperazione osservando quel corpo martoriato dai chiodi. Il cielo è corrusco, l’arboscello fiorisce attraverso una dolce sassaia, quale vitalità, quale reazione!
Non c’è gelo, pietrificazione, ma il giusto risveglio, la presa di coscienza che segue lo sgomento alla ripresa della vita sulla morte, al positivo che sovrasta il negativo fanno eco l’energia dei colori, la composta ripiegatura dei panneggi, la vitalità, la tensione drammatica della scena che sembra incardinarsi su una immediata ritrovata speranza. Qui sembra trovarsi l’antitesi fra un Correggio morbido e intenso tutto introverso, per cui ciascun personaggio vive il proprio dolore in solitudine, seppure di gruppo, e la condivisione messa in scena dallo Schedoni. Un tema centrale nel dibattito religioso dell’epoca, inserito in ambienti diversi: quello meditativo benedettino e quello operativo dei cappuccini, per i quali la carità e il partecipato apporto consolatorio rappresentano un aspetto fondante della loro Regola. Ne scaturiscono differenti interpretazioni che sono la dimostrazione di quanto, in termini di religiosità, uno stesso episodio della Passione di Cristo possa avvalersi di cognizioni diverse dell’esperienza dolorosa. L’esecuzione delle opere è da collocarsi fra il 1613 e il 1614 se al 20 giugno 1614 sono documentate le cornici da parte di Michelangelo Aschieri (ASP, Raccolta, ms., b. 51).
Tutto il resto è storia critica e conservativa. Il dipinto, infatti, insieme agli altri due rimasti nel convento, ma ormai diviso dal resto del ciclo acquistato da Francesco Farnese nel 1710 e ora a Capodimonte e fatti sostituire da copie, era stato prelevato e trasportato l’1 aprile 1806 presso l’Accademia (Atti… 1794-1821, pp. 98-99) su decreto del governatore Junot. Nel 1810 è annotata la convocazione dei consiglieri con voto, fra cui Sbravati, Bresciani, Ravenet, Martini e Pasini (cfr. Atti…, pp. 104-105) affinché valutassero le opere. Nel luglio del 1815 si autorizzò Domenico Muzzi (Atti… p. 464) a pulire i tre dipinti, lavoro che fu assai lodato dai pittori Benvenuti e Camuccini venuti in ammirazione di Schedoni (ms. par. 1106, cc. 313-314, in misc. parm. presso Biblioteca Palatina).
Il Quintavalle – lodandone il caravaggismo – cita un “bellissimo” bozzetto preparatorio in collezione Signorelli a Roma. Se ne conoscono molte versioni antiche fra cui una alla Pinacoteca Stuard (cm 28 x 36) una in collezione privata a Fornovo, considerata da Copertini (1953, III, p. 58) bozzetto autografo, perché proveniente dal convento delle Cappuccine vecchie.