Da quando Ricci (1896) ebbe a inventariarlo sotto il nome del tutto ingiustificato di Bernardino Campi, il grande dipinto, di cui si ignora la provenienza, ha costituito un dilemma attributivo tutt’altro che facile, anche, e soprattutto, in relazione al suo prestigio formale e al suo alto livello qualitativo.

Una soluzione che, commisurata alla situazione degli studi di quegli anni, poté sembrare per qualche tempo convincente fu quella in favore del mantovano Giuseppe Bazzani (circa 1690-1769) proposta nel 1937 da A.O. Quintavalle, che riferiva del parere concorde di Longhi e di Pallucchini. Forte di un avanzamento critico che, in area veneta, ha nel frattempo portato alla ribalta anche personalità di secondo piano, ma di qualità sovente ragguardevole, Ugo Ruggeri ha di recente riaperto il problema, discutendo con ricchezza di argomentazioni il dipinto in relazione al veneziano Giovanni Segala, un artista che, dopo essere stato allievo di Pietro della Vecchia, si mise ben presto in luce quale esponente, accanto a pittori quali Antonio Bellucci e Gregorio Lazzarini, del versante classicista della pittura veneta tra fine del XVII e inizio del XVIII secolo.

A supporto della sua ipotesi lo studioso, che non esita a parlare in proposito di “strepitoso inedito”, richiamava a confronto la grande tela con la Morte di san Giuseppe della chiesa parrocchiale di Dossena, del 1702, e la Gloria dei santi Cecilia e Lorenzo Giustiniani in San Martino del Castello a Venezia (ripr. in Pallucchini 1981, II, figg. 1243, 1244), nelle quali compare in effetti un metro compositivo assai prossimo, mentre soluzioni morfologiche del tutto simili si riscontrano poi nella Pietà delle Gallerie dell’Accademia di Venezia e in un altro dipinto dello stesso tema già sul mercato londinese (ripr. in Ruggeri 1991, figg. 14, 15): risultano in particolare stringenti le somiglianze con la figura del Cristo riverso sul sudario nel quadro di Venezia, connotato nel viso da un identico partito di ombra. In favore del Segala si esprimono poi le due figure in penombra all’estrema destra, dalle quali emerge anche un rapporto con altri pittori attivi in quegli anni, come il già citato Gregorio Lazzarini o Antonio Molinari.

Come altrove, anche in questo caso il pittore veneziano rivela l’intento, che lo accomuna ad altri artisti coevi, di rivitalizzare i grandi modelli della tradizione veneziana cinquecentesca, Tiziano in testa, attraverso il rimando concomitante al classicismo di marca emiliana e al naturalismo di Ribera, da cogliere nel taglio obliquo che conferisce efficacia drammatica alla scena.

Bibliografia
Ricci 1896, p. 31;
Perotti 1932, p. 107;
Quintavalle A.O. 1937-38, pp. 223-224;
Quintavalle A.O. 1939, pp. 202-203;
Ruggeri 1991, pp. 245-246
Restauri
1938 (A. Verri)
Mostre
Parma 1948
Daniele Benati, in Lucia Fornari Schianchi (a cura di) Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere. Il Settecento, Franco Maria Ricci, Milano 2000.