L’affresco raffigura il Cristo morto rigidamente adagiato sulle ginocchia della Madre affiancata dai Santi Giacomo, caratterizzato dal bordone da pellegrino, e Antonio abate, riconoscibile dal campanello appeso al bastone a forma di Tau.

La scena è inquadrata da un arco trilobato, sorretto da colonne terminanti in capitelli con foglie d’acanto e decorato ai lati da due teste monocrome, raffiguranti Eva e Adamo, inserite entro corone d’alloro a ricordare la “felice colpa” che ha reso necessaria la venuta del Cristo. L’architettura poggia su un piedistallo decorato a finto marmo, all’interno del quale sono ritratti due frati carmelitani in preghiera. Al centro appare una scritta ormai illeggibile vergata a caratteri gotici.

L’opera proviene dalla chiesa della Beata Vergine del Carmelo, protagonista, a partire dalla sua data di fondazione nel 1273, di numerosi e complessi interventi costruttivi, solo recentemente indagati (Marchesi 1996).

Particolare interesse riveste, ai nostri fini, la campagna di lavori documentata a partire dagli anni sessanta del ’400, durante la quale si aggiungono due campate alla chiesa e si realizza, nel 1493, una nuova facciata.

È presumibile che questo fervore edificativo, generato da floride condizioni economiche, fosse accompagnato dal desiderio di arricchire la chiesa con pregevoli affreschi, la cui scialbatura, avvenuta in epoca imprecisata ma documentata dai segni della picchiettatura presenti nella parte centrale, era ancora parzialmente in essere quando Pelicelli ricorda la chiesa nel 1906.

Il dipinto, la cui originaria ubicazione all’interno della chiesa del Carmine è ignota, fu individuato sotto lo scialbo negli anni Sessanta e successivamente staccato per essere sottratto alla progressiva rovina causata dall’umidità del luogo.

Liberata dunque dallo scialbo in tempi recenti, l’opera è oggetto di una ridotta vicenda critica, limitata al solo intervento della Ghidiglia Quintavalle che, notificandone l’esistenza, la accosta ai modi di Giacomo Borlone datandola agli anni ottanta del secolo.

Il pittore fa uso di due diversi registri espressivi che palesano l’appartenenza alla cultura locale e la conoscenza mediata di alcune novità iconografiche interpretate alla luce dei limitati orizzonti culturali del pittore. Un linguaggio austero e composto viene utilizzato nella parte centrale della composizione, ripresa speculare e fedele, soprattutto per quanto riguarda il nucleo comprendente Cristo e la Vergine, di un affresco della chiesa di Santa Maria del Carmine a Pavia, attribuito a un allievo del Bonone (Tanzi 1993). La similarità sembra però limitarsi alla dipendenza delle due opere da un medesimo modello iconografico derivato dai Vesperbild di area germanica già diffusi in Italia alla metà del secolo. Il pittore appare qui stilisticamente legato a modelli parmensi della seconda metà del secolo, ai quali è accostabile per la rigidità delle pose e dei gesti, per la presenza incisiva della linea di contorno, per le tipologie facciali dei santi e di Maria che richiamano, nei lineamenti definiti graficamente, i personaggi di Jacopo Loschi. Nell’incorniciatura invece il pittore traduce le novità del classicismo padovano con un linguaggio ancora tardogotico, evidente nell’arco trilobato, nella marcata definizione chiaroscurale, nella deformazione caricaturale e grottesca dei volti. È qui palese il legame del pittore con la cultura, rappresentata a Parma dalle cappelle del Duomo, affermatasi in Emilia nella prima metà del secolo, nonostante egli operi probabilmente intorno all’ultimo quarto del ’400.

Scheda di Maria Chiara Cavazzoni tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.