- Titolo: La Deesis e i santi Paolo e Caterina
- Autore: Giulio Pippi, detto Giulio Romano
- Data: 1520 circa
- Tecnica: Tempera grassa su tavola
- Dimensioni: cm 122 x 98
- Provenienza: Parma, monastero di San Paolo; a Parigi nel 1796; in Galleria dal 1816
- Inventario: GN371
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: La pittura toscana e in Italia centrale 1200-1500
Nel 1796, quando venne trasferito a Parigi a seguito delle prime requisizioni napoleoniche, il dipinto si trovava presso il convento benedettino di San Paolo come opera di Raffaello. L’attribuzione all’urbinate ricorre costantemente nell’antica guidistica locale, che altrettanto unanimemente descrive la tavola sull’altar maggiore della chiesa conventuale (Note… XVII secolo; Barri 1671; Nota… 1725; Ruta 1780; Baistrocchi 1780; Chiusole 1782; Bertoluzzi 1800); solo Oddi e Ruta lo dicono all’interno del convento anziché in chiesa, dando conto di quelli che dovettero essere momentanei trasferimenti.
I tempi e i modi dell’acquisizione del dipinto da parte delle monache di San Paolo nonché le circostanze della sua committenza sono sconosciuti. Affò (1796) riferisce di alcune imprecisate memorie secondo le quali sull’altar maggiore della chiesa vi sarebbe stato “un Quadro di Gio. Maria Conti Parmigiano rappresentante la Conversione di San Paolo, da lui dipinto nel 1660 in prezzo di lire 500”. Tale affermazione potrebbe far supporre un’acquisizione tarda del dipinto da parte del monastero, che dovette comunque entrarne in possesso entro il 1671, anno in cui Barri lo vide sull’altar maggiore della chiesa.
Non si può tuttavia escludere che la tavola potesse essere già presente in San Paolo con una diversa collocazione, magari all’interno dell’area claustrale del convento benedettino: del resto le sue dimensioni modeste e il formato risultano piuttosto inconsueti per l’altar maggiore sia pure di una chiesa di non grande estensione e prevalentemente riservata all’uso monastico. Scarabelli Zunti (XIX secolo) avanza, con molta cautela, l’ipotesi che il quadro possa essere “stato messo in questo tempio, allora fabbricato di nuovo, dalla infelice Margherita Farnese… che nel 1584 prese il velo in quei chiostri. Se in vero un Raffaello non poteva uscire qui in Parma che dalla Reggia dei Farnesi che del sovrano pittore essi soli avevano tesori”. Non ci pare altresì da trascurare neppure l’idea di una commissione diretta del dipinto da parte delle monache di San Paolo, soprattutto considerando la presenza in esso di due figure eponime del convento parmense quali i santi Paolo e Caterina: al primo era infatti intitolato l’intero complesso mentre alla seconda era dedicata una cappella nei pressi dell’“orto grande” (Dall’Acqua 1990, p. 33; Fornari Schianchi 1990, pp. 45, 73 nota 10).
Per quel che riguarda la vicenda attributiva, il primo a mettere in dubbio la paternità raffaellesca fu de Lama (1816) che propose la mano di uno scolaro; più puntualmente Crowe e Cavalcaselle (1882-1885, ed. it. 1891) indicarono il nome di Gianfrancesco Penni, pur continuando a ritenere Raffaello l’ideatore del dipinto. Il disegno conservato al Louvre (inv. 3867) e da sempre messo in relazione alla tavola per l’identità di soggetto e composizione venne individuato dagli studiosi come lavoro preparatorio della stessa, eseguito da Penni o da Giulio Romano su schizzo di Raffaello.
L’ipotesi di un intervento progettuale del maestro urbinate venne sostanzialmente ribadita dalla critica successiva che talora assegnò direttamente a Raffaello il disegno del Louvre (Burckardt 1894; Quintavalle 1939). A partire dallo stesso Burckardt, per continuare con Ricci (1896), Venturi (1926), Berenson (1936) e Quintavalle (1939), il dipinto fu concordemente e definitivamente attribuito a Giulio Romano e ritenuto opera giovanile ancora profondamente segnata dal classicismo raffaellesco. Più recentemente Joannides (1985) vede nell’indubbia matrice raffaellesca dell’opera, particolarmente evidente nel registro superiore, non la traduzione di uno schizzo progettuale di Raffaello, bensì l’utilizzo e la giustapposizione di figure ispirate alla Disputa, ovvero di modelli formali e iconografici già sperimentati. Lo studioso assegna, dunque, il disegno del Louvre a Penni, confermando l’attribuzione del dipinto a Giulio Romano e del medesimo parere è la Ferino (1989) che pure torna a non escludere la paternità raffaellesca dell’invenzione interpretando, fra l’altro, il disegno del Louvre come prototipo per una stampa, di identiche dimensioni, eseguita da Marcantonio Raimondi.
Concordi i contributi critici più recenti sono anche sulla cronologia del dipinto, da collocarsi attorno al 1520: nella struttura rigorosamente simmetrica ed equilibrata della composizione, nella misurata proporzione delle figure, nella compostezza dei loro gesti è infatti ancora netta la scelta classicista. Accanto ad essa, quasi a segnare un inizio di crisi del decorum rinascimentale, è una certa teatralità nell’accensione cromatica, nella disposizione ravvicinata delle figure e nella ricerca di un rapporto più stretto con lo spettatore, teatralità che diventerà cifra dominante nella “maniera” matura di Giulio. Peculiare del giovane artista romano è anche l’attenzione descrittiva che si concentra in alcuni dettagli quali la bassa vegetazione in primo piano, i gioielli di santa Caterina, la ricercata acconciatura della stessa, brani in cui risuonano accenti nordici, chiarissimi anche nell’interpretazione del profondo paesaggio centrale dove i blu e i verdi intensi vengono rischiarati da subitanei bagliori.