La provenienza di questo misterioso dipinto è riportata dall’Inventario generale che ricorda il passaggio dal Palazzo Ducale di Colorno alla Pinacoteca nel 1821. Anche in un più antico Inventario generale, risalente al 1852, si ricorda il dipinto come “riconosciuto appartenere al R.e Guardamobili”.

Buono è ora lo stato di conservazione dopo l’accurato intervento di restauro, ma l’opera ha subito in passato danni traumatici, come rivelano le ampie lacune, i tagli e gli strappi, forse causati da fatti bellici.

Nel restauro di alcuni decenni fa, risalente presumibilmente all’immediato dopoguerra, è stato provveduto tramite operazione di foderatura al riassemblaggio dei frammenti, o meglio dei lacerti di tela. La rovina del quadro risale comunque a date antiche dal momento che Ricci (1896, p. 81) già lo descriveva come “rovinatissimo e impiastricciato da cattivi ristauri”. L’intervento eseguito di recente ha messo in luce un pentimento nella disposizione del cartiglio con la scritta “Ecce Agnus Dei” che si svolge attorno alla canna del Battista, prima fatto scendere più dolcemente. Merita particolare attenzione lo stemma dipinto nell’angolo sinistro in basso contro il rialzo del gradino. Lo scudetto è incluso in un tondo e presenta la testa di un bue o di un toro su fondo monocromo verdastro suddiviso in tre fasce orizzontali. Al di sopra dello scudetto si legge la lettera “P” e a sinistra la lettera “G”. Quella riportata a destra, ora non più visibile, è scomparsa molto verosimilmente con il grave evento traumatico che ha molto danneggiato l’intero dipinto. Le testimonianze degli inventari e dei cataloghi informano che si trattava di una “G” (Ricci 1896, pp. 80-81). Lo scudetto era pertanto accompagnato dalle lettere “P. G. G.” disposte sopra e ai lati. Tuttavia né lo stemma né le lettere sono stati decifrati.

L’enigma avvolge del resto anche il nome dell’artista. Considerato “di Autore Ignoto” già nel 1825, il dipinto è stato riferito in seguito a “Scuola fiorentina” (Inventario… 1852, n. 140) e, alternativamente, a “Ignoto”, a “Scuola fiorentina” e a “Scuola fiamminga” (Martini 1875). Infine, con Ricci (1896, pp. 80-81), ha preso piede l’attribuzione alla “Scuola di Guercino”. Non risulta che in seguito siano state espresse opinioni in proposito, né pare che l’immagine del dipinto sia stata mai riprodotta. La collocazione nei depositi e l’infelice stato di conservazione hanno costituito fattori di forte pregiudizio alla sua conoscenza.

Il restauro ha dimostrato la gravità dei danni, ma nello stesso tempo ha messo in luce una qualità esecutiva di grande interesse. La composizione sembra rivelare la mentalità di un artista di iniziale educazione manierista, o quanto meno cresciuto in un ambiente segnato da una specifica cultura figurativa cinquecentesca, nella quale fanno improvvisa irruzione le suggestioni naturalistiche della tradizione caravaggesca. La luce naturale che colpisce le figure con speciale violenza si accompagna alla descrizione degli aspetti raccapriccianti della scena sanguinaria.
Il corpo abbandonato del Battista con le mani legate dietro la schiena si rovescia in primo piano gettando abbondante sangue dal collo troncato di netto dalla spada.

Il sangue sgorga sulle lastre di pietra del carcere ed ha sporcato il bordo della veste suntuosa di Erodiade, profilata da passamanerie dorate. Il carnefice ha già afferrato la testa del Battista per i capelli e la sta posando sul bacile tenuto con impassibile freddezza dalla giovane donna assistita da un’ancella, come una Giuditta che riceve la testa del generale Oloferne. Oltre alla scena cruenta, anche la luce e la composizione essenziale rispondono alla poetica caravaggesca; ma la componente arcaica che presiede l’invenzione allude a un artista di origine provinciale che sia stato colpito dalla nuova cultura figurativa della capitale; una vicenda che ricorda per molti aspetti l’itinerario formativo di Giovanni Francesco Guerrieri, detto il Fossombrone, la cui maturazione fu sollecitata dalle esperienze caravaggesche compiute a Roma a partire dal 1606, le quali portarono l’artista a un risultato quale la Maddalena penitente della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano firmata e datata 1611 (Emiliani, in Emiliani – Cellini 1997, pp. 46-48). Come osserva Marina Cellini (com. or.), molti tratti dell’immagine rispondono alla personalità di Giovanni Francesco Guerrieri, soprattutto il gruppo di Erodiade e della fantesca, come pure la testa mozzata del Battista.

La tipologia della giovane donna ha molto in comune con le fisionomie peculiari del pittore di Fossombrone, e anche l’impostazione generale della figura, il modo di porgere il bacile, il disegno delle pieghe delle maniche bianche e l’applicazione degli elementi ornamentali richiamano certe sue soluzioni; aspetti, questi, che ricordano gli affreschi e le tele di Palazzo Borghese, e in modo particolare la tela di collezione privata a Vignola con Ercole e Onfale (Emiliani – Cellini 1997, pp. 65-80). Anche la luce gioca sul suo volto con effetti riconoscibili, come pure sul volto del Battista. Il ricordo va al tondo del Museo Capitolare della Cattedrale di Velletri recentemente ricondotto all’artista (Cellini, in Emiliani – Cellini 1997, pp. 85-86), dove il volto della Madonna e quello del Bambino presentano un’impostazione molto simile a quello di Erodiade, e inoltre alla tela della chiesa di San Pietro in Valle a Fano con il Miracolo del nato cieco.

Nello stesso tempo – come osservano Papi e Contini (com. or.) – altri aspetti specifici del dipinto risultano piuttosto collegabili ad altre personalità, quali Rutilio Manetti e Angelo Caroselli, e appaiono estranei alla cultura e alla prassi operativa del pittore di Fossombrone. Lo scorcio ben costruito del corpo esanime del Battista, riverso a terra, sul quale le ombre giocano con un’abile modellazione della muscolatura mostra una sapienza inconsueta a Guerrieri il quale è solito evitare ogni virtuosismo anatomico e prospettico. Certa morbidezza dell’incarnato sembra inoltre differenziarsi dalle superfici smaltate e dai modi un poco induriti e legnosi di Giovanni Francesco Guerrieri i cui modelli mostrano disarticolazioni segnate da costanti rigidità.

Una datazione verso il 1620 può convenire al nostro dipinto. Non è escluso che il suo autore sia da ritrovare nell’area umbro-marchigiana, in un artista che abbia saputo rinnovare la propria cultura di origine nell’improvvisa immersione nel clima caravaggesco romano del primo e del secondo decennio del ’600.

Bibliografia
Toschi 1825, p. 27;
Inventario… 1852, n. 140;
Martini 1871, p. 75;
Inventario… 1874, n. 193;
Martini 1875, n. 193;
Pigorini 1887, p. 16;
Ricci 1896, pp. 80-81
Restauri
1885 (S. Centenari);
1974 (R. Pasqui);
1999 (Zamboni e Melloni)
Scheda di Angelo Mazza, tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Seicento, Franco Maria Ricci, Milano, 1999.