- Titolo: Crocifissione e Madonna col Bambino
- Autore: Paolo Veneziano
- Data: 1330-1340
- Tecnica: Tempera e oro su tavola
- Dimensioni: 72 x 72,5
- Provenienza: Parma, Palazzo Ducale; Amministrazione Provinciale (deposito 1872)
- Inventario: GN458
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: La pittura veneta 1200-1500
Nelle ante laterali, all’esterno: San Cristoforo e San Biagio; all’interno, a sinistra, Angelo annunziante; San Michele arcangelo e san Giovanni Battista; San Giorgio e san Francesco; a destra, Annunziata, Assunzione della Maddalena; Sant’Orsola e Sant’Antonio abate.
La tipologia dell’altarolo portatile, ampiamente diffusa in un’epoca percorsa da viaggiatori e pellegrini come il ’300, consentiva la frequente replica di idee di successo: quello presente ne è un interessante caso. L’iconografia è allusiva al tema del viaggio e alla funzione taumaturgica e apotropaica dei santi (si vedano Cristoforo, Biagio, Antonio).
I colori puri, usati con tecnica raffinata, potrebbero confermare la loro provenienza orientale di cui tanto parlano le antiche fonti lagunari. La Crocifissione innesta su modelli di origine bizantina modi che richiamano tendenze gotiche italiane. Il tema della Vergine svenuta – non raro, ma variamente interpretato – è qui affine alla particolare versione di cui troviamo fra l’altro esempi nella cultura riminese fino a Pietro, o a Bologna nel giovane Vitale ora a Filadelfia e nel Maestro del 1333. Non sembra allora del tutto fuori luogo l’antico riferimento emiliano del Ricci. La Madonna col Bambino e l’Annunciazione – come l’elegante stesura dell’oro, i costumi dei santi soldati o l’iconica immagine della Maddalena – traducono pure nobili modelli bizantini, inserendoli in spazi architettonici di matrice occidentale.
Il trittichetto, oggi concordemente assegnato a Paolo Veneziano – anche se con sfumature riguardo l’autografia – presenta elementi sovrapponibili rispetto a opere come il polittico di Worcester o la Crocifissione Kress, con cui costituisce un gruppo variamente scalato nel tempo. L’esecuzione è giudicata vicina alla prima opera datata del maestro, il polittico di Vicenza del 1333 (per la discussione critica si rimanda a Pallucchini 1964; Muraro 1969; Lucco 1986; D’Arcais 1991 e ai cataloghi della Pinacoteca).
Come l’intero percorso di Paolo, l’altarolo è stato letto ora in direzione più “bizantina”, ora più “italiana”: ma il suo senso profondo è proprio nella commistione fra Occidente e Oriente.
Non è un caso: ancora nel ’300, quando le differenze politiche e culturali fra i due mondi divenivano più forti, quell’incrocio continuava a “segnare” Venezia, trovando proprio in Paolo un ultimo grande protagonista. La città lagunare aveva sempre avuto funzione di tramite riguardo a Bisanzio, ma anche alle autonome realtà sorte in particolare nella regione balcanica in seguito all’indebolimento, nel XIII secolo, del potere centrale. Con Istria e Dalmazia, da sempre collegate sia pur con alterne fortune alle vicende veneziane, i rapporti si consolidarono proprio nel ’300. Ma nel XIII e XIV secolo si aprirono nuovi contatti anche con il vicino regno di Serbia, che si affacciava allora sull’Adriatico.
Già all’inizio del ’200, mentre Bisanzio cadeva in mano occidentale e preponderante vi diveniva la presenza veneziana, Stefano I, uno dei primi re del nuovo Stato balcanico, sposò Anna, della nobile famiglia Dandolo, inaugurando la via per rinnovati scambi. Non è allora casuale la presenza di riconosciuti rapporti fra Venezia e la grande scuola pittorica attiva in quei secoli soprattutto in chiese e monasteri di Serbia e Macedonia. Questa, a partire da Studenica (1208-1209), attraverso Milesˇevo (1234-1236) e Sopoc´ani (1263-1268), avrebbe avuto tanti momenti di confronto con la nostra cultura.
A Venezia vengono identificati echi balcanici a vario livello nei cicli due-trecenteschi a mosaico di San Marco come in pitture murali datate tra fine ’200 e primi del ’300 (si vedano Zuliani 1986; Lucco 1986, D’Arcais 1986). Suggestioni di quel possibile incontro sono ancora identificate in opere pienamente trecentesche. Si vedano il trittico di Trieste o l’ancona di San Donato a Murano, in cui pure è stata suggerita la presenza dello stesso giovane Paolo.
Il confronto diretto fra le due sponde adriatiche poté essere variamente aiutato dallo scambio con culture vicine che recepivano autonomamente quelle suggestioni: con Ferrara e la Romagna, da cui si ritiene provenissero all’inizio del ’300 le novità più aggiornate dell’entroterra; con Rimini, in sicuro rapporto con Emilia e Veneto, ma anche con l’altra riva del mare. Il legame di dare-avere fra Venezia e le città site lungo le due coste – collegato certo alla reciproca volontà di espansione politica e commerciale – aveva portato alla diffusione di opere veneziane da un lato fino alla Puglia, dall’altro in Istria e Dalmazia, fino a Dubrovnik, l’antica Ragusa (D’Arcais), tra ’200 e ’300 fervido centro d’incontro, verso cui gravitava fra l’altro – ancora alla metà del secolo XIV – la stessa cultura del regno di Serbia, allora nel momento della massima espansione sotto Dusˇan (Lazarev 1967).
Lungo quelle strade si diffuse nel ’300 anche l’opera di Paolo, con polittici e tavole (si veda il grande Crocifisso per i domenicani della stessa Dubrovnik), mentre artisti dalmati e certo anche di altra provenienza balcanica lavoravano a Venezia. Paolo finisce per essere grande mediatore fra i due mondi. E forse i diretti contatti con la cultura dell’altra sponda contribuirono a modificare in senso più “paleologo” le tendenze espresse da opere giovanili quali quella parmense.
In essa, come in opere legate alla prima attività di Paolo, si tende oggi a vedere (Lucco, D’Arcais) una maggiore propensione verso modi di derivazione occidentale rispetto a quanto riconoscibile nelle opere mature degli anni quaranta-cinquanta, come il polittico di San Giacomo a Bologna (Volpe 1967). Tali testimonianze rappresentano una conversione di rotta, ma non un ritorno indietro, forse addirittura un aggiornamento. Desiderio di ritrovare le origini, riconoscimento dell’importanza culturale ma anche politica di un mondo che, pur in crisi, era naturale erede della classicità ellenica, e si riconnetteva al momento più glorioso di Venezia? Necessità politica e religiosa conseguente alle traversie della città e alla peste? (Lucco). Erano quelli gli anni in cui il “mito” greco ricresceva anche in Oriente, riportando – perfino nel momento del maggiore splendore balcanico – negli stessi monasteri della Serbia orgogliosamente indipendente, artisti di diretta provenienza, o almeno ispirazione, greca e puramente bizantina. Un ritorno alle fonti, anche lì, dopo il grande momento duecentesco che aveva condotto alla pittura libera ed espressiva di Sopoc´ani. In un periodo di più aperta differenziazione tra Oriente e Occidente, Paolo, testimone e tramite, rimane protagonista altissimo e almeno apparentemente solitario di una storia che – fra nostalgia, rinnovamento e paura del futuro – stava per concludersi.