- Titolo: Cristo risorto cha abbraccia la Croce
- Autore: Giovan Battista Tinti
- Data: 1594
- Tecnica: Olio su cuoio
- Dimensioni: cm 217 x 136
- Provenienza: Parma, ex oratorio di Sant’Ambrogio; deposito della Congregazione di Carità
- Inventario: SN
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
Il dipinto proviene dalla chiesa di Sant’Ambrogio, in origine parrocchiale e dal 1696 oratorio della Confraternita delle Cinque Piaghe, fondata fin dal 1564 in altra sede (Da Mareto 1978, p. 230); all’atto del trasferimento la compagnia portò “seco con solenne pompa” la sacra immagine del Salvatore “col bel gonfalone del Tinti” (Scarabelli Zunti).
Nel corso del ’700 e dell’800 il gonfalone col Cristo che abbraccia la Croce è ricordato dalla maggioranza degli eruditi locali e tutti ne lodano “l’attitudine” semplice e maestosa e il bel colorismo; con la soppressione delle confraternite cittadine, decretata nel 1911 e resa esecutiva con sentenza del 1913, l’oratorio fu chiuso e ridotto a uso profano (è ancora oggi esternamente riconoscibile con facciata sull’attuale via Farini), mentre il dipinto pervenne alla Congregazione di Carità, che nel 1927 lo diede in deposito alla Galleria Nazionale (verbali di consegna presso la Soprintendenza di Parma). Qui è segnalato per la prima volta da Venturi, che pur lodando il correggismo del Tinti nella cupola di Santa Maria degli Angeli, qualifica lo stendardo come “opera mediocre e pretenziosa, priva di equilibrio”, debitrice ai contemporanei del Passerotti per le forme compatte, al fiamminghismo del Calvaert nei panneggi e nell’instabilità della figura.
La matrice culturale del dipinto è indubbiamente bolognese, con collegamenti al mai dimenticato modello tibaldesco nelle forme ampie dell’anatomia, resa però più in senso coloristico che di plastica definizione, e con l’innesto di riferimenti parmensi nelle raffinatissime mani come nel volto elegante; così pure innegabile è l’impostazione calvaertiana della posizione e del manto svolazzante segnato da risalti luminosi, anche se peculiari del Tinti sono la gamma cromatica e i passaggi tonali, che sfumano l’azzurro in un rosa tenuissimo contrapponendolo al fondo scuro e al giallo intenso della tonacella dell’angelo.
Risulta invece difficile condividere la severa valutazione qualitativa del Venturi, perché se è vero che il contrapposto della figura non è perfettamente riuscito e la scansione della profondità risulta un poco imprecisa, in particolare nel rapporto proporzionale dell’angelo col Redentore, questi limiti paiono imputabili al tentativo di raffigurare efficacemente l’illusionistico protendersi del Cristo oltre il limite della cornice: lo sforzo di visualizzare in forma convincente la solenne apparizione divina, dando vita a un’immagine che è al contempo artificiosa e sufficientemente persuasiva, denota da parte del Tinti la volontà di funzionalizzare la propria cultura di estrazione manierista al dettato tridentino, con un atteggiamento di cauto rinnovamento non privo di interesse. Viene recuperata anche la tradizione più strettamente decorativa della maniera parmense, a grottesche e intrecci interrotti da nicchie con figure monocrome, risalente in prima istanza al Parmigianino e utilizzata anche dal Bertoja nello stendardo con la Madonna della Misericordia, dipinto per la Compagnia di San Quirino e ora in Galleria (inv. 1109, scheda n. 263).
In questo caso il Tinti adotta un motivo dorato, a foglie affrontate e nastri geometricamente disposti, che pare richiamare in particolare gli ornati del Bedoli nella crociera presbiteriale del Duomo, inserendo nelle nicchie al centro dei lati verticali angeli con i simboli della Passione; l’intento didascalico è poi accresciuto dai due cartigli con iscrizioni allusive alle ferite di Gesù, cui si legava l’intitolazione della confraternita.
È probabile una datazione, prossima alle opere della piena maturità, all’ultimo decennio del XVI secolo.
Iscrizione: nei due cartigli della cornice, VVLNERIS DE/VVLNERE SALVS; HVNC SOCII/SENTITE/IN VOBIS