- Titolo: Compianto su Cristo morto
- Autore: Antonio Allegri, detto il Correggio
- Data: 1524 ca.
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 157 x 182
- Provenienza: Parma, abbazia di San Giovanni Evangelista (cappella Del Bono); in Francia nel 1796; in Galleria dal 1816
- Inventario: GN 352
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Il mito di Correggio
È l’incontro con un Vesperbild squisitamente padano quello cui dobbiamo prepararci di fronte a questa tela, “lodatissima” come ci informa Vasari (Vite… 1568). Un terreno sostanzialmente brullo, pochi e stentati ciuffi d’erba ingiallita, sulla sinistra una quinta di alberi dalle chiome rugginose (una tonalità che va decisamente aldilà di quello che è il naturale imbrunimento che si manifesta nella maggior parte dei verdi), ma soprattutto nuvole basse, una fumigante densa opaca nebbia che intride e svapora su ogni cosa e persona, facendo rabbrividire terra e cielo. Un Venerdì Santo padano e autunnale dunque, con un singolare ma innegabile slittamento stagionale, rispetto al tema, ancora più intenso e sconvolgente qualora lo si confronti ad esempio con la primaverile alba radiosa che è lo sfondo, teologicamente corretto, alla grande Deposizione di Francesco Francia (Parma, Galleria Nazionale, inv. 123; cfr. vol. I, scheda n. 97) eseguito circa un decennio prima del nostro Compianto per la Sala del Capitolo della stessa chiesa.
Percorrendo ancora una volta la strada del confronto scioccante, tante volte proposto fra la Camera di Correggio e quella di Alessandro Araldi, così vicine e così lontane nel monastero di San Paolo, favorito oggi dalla circostanza che le due opere si trovano entrambe alla distanza di poche sale, non si può non restare una volta di più senza parole di fronte a un abisso di pensieri, stile, emozioni, sensibilità che divide due testi che pure hanno in comune il soggetto e la committenza benedettina. Così probabilmente è il coerente programma iconografico che informava tutta la decorazione della chiesa dedicata all’Evangelista Giovanni a portarlo, in entrambi i casi, alla ribalta da protagonista (e identico è anche l’abbigliamento): ma nel Francia il suo ruolo è ancora quello del discepolo più fedele a Cristo, per Correggio è il figlio e il fratello, è colui che con l’abbraccio pressante alla Vergine prende un nuovo posto al suo fianco. Ancora: su entrambe le opere aleggia il ricordo non virtuale della tradizione, padana appunto, deiCompianti in terracotta del secondo ’400: in particolare quelli di Guido Mazzoni, che si trovavano, non è un caso, a breve distanza: a Busseto nella chiesa francescana di Santa Maria degli Angeli (1476-1477) e a Modena (1477-1479) allora nell’oratorio dell’ospedale di San Giovanni della Buona Morte, gruppo restaurato e dipinto nel 1509, e certo neppur questa è una coincidenza, da Francesco Bianchi Ferrari (Lugli 1990, p. 320), probabile maestro del giovane Correggio.
Nella Deposizione dell’artista bolognese il riferimento è essenzialmente formale: la tipologia severa e monastica della Vergine, nella maschera fisionomica e nel mantello di un blu scurissimo, la corsa sospesa con le braccia spalancate della pia donna che arriva da destra paiono quasi citazioni dal gruppo di Busseto, mentre la stessa composta disposizione del gruppo dei pleurantsintorno alla centralità del Cristo esanime appare ispirata dalla sapiente scenografia dei tableauxmazzoniani. Ma è l’atmosfera che muta: nel Francia l’emozione è trattenuta, il pianto rimosso, il dolore già rassegnato, in una medietà sentimentale che fa della Passione una tappa necessaria in quel percorso di salvezza cui allude proprio il cielo luminoso e albeggiante. È proprio la qualità espressiva, la sapienza dei “moti dell’animo” invece che Correggio trova, e fa sue, da quei grandi e in qualche modo eccentrici exempla, ben al di là del lessico iconografico e gestuale che è invece singolarmente innovativo. Il tema centrale è infatti (in mistica consonanza, non certamente priva di significato, con la Passione secondo Giovanni…) la cognizione, la rappresentazione, il sentimento del dolore. A partire dalla scelta dell’istante narrativo: che non è né quello della Deposizione, né quello del classico Compianto (ed ecco la radice oggettiva di certa incertezza definitoria nei testi critici) ma un istante intermedio, forse mai raccontato, quello del primo e fatale contatto fra la Madre e il Figlio dopo la Croce, quello della presa di coscienza ineluttabile della morte. Non è ancora giunto il tempo della pietà, dell’unzione e della ricomposizione: il corpo già livido del figlio, adagiato sul grembo della madre è mollemente abbandonato, la bocca semiaperta, gli occhi dalle palpebre semichiuse mostrano le pupille rovesciate (particolare così naturalistico, così lombardo), le mani sono ancora irrigidite come artigli dalla crudele tensione dei chiodi. È quel contatto primario che fa svenire la Madre, quasi la uccide, tanto che Giovanni e una delle Marie a lei si volgono preoccupati, il suo volto incenerito contemplano. Certo il vocabolo iconografico dello svenimento della Vergine, il suo “spasimo”, è vocabolo antichissimo e rinnovato ad esempio da Mantegna nella Crocifissionedel Louvre (1475-1479), e ancora da Raffaello nella Deposizionedella Galleria Borghese (1507), tuttavia guardato con qualche sospetto ormai in questo terzo decennio del ’500 in quanto eccessivamente espressivo e passibile di far slittare l’attenzione dei fedeli dal tema della salvezza a quello del sacrificio. Qui la perdita dei sensi è proprio una demi-mort, la sottolineatura partecipe, accentuata dalla simmetria sopra/sotto dei due volti, della consonanza emotiva tra la Madre e il Figlio. Se da una parte sta la madre dall’altra piange la sposa (e la qualificano il bianco e il rosso, colori dell’amore puro, del suo corpetto) Maria Maddalena, accasciata ai suoi piedi, i lunghi capelli scarmigliati, le mani intrecciate quasi a comprimere il sentimento, le occhiaie violacee che le segnano il volto. Sola come la sposa o l’amante abbandonata, lasciata, ferita, sola a fissare eternamente lo strazio di quei piedi lacerati: Correggio sa trasformare la necessità iconografica del personaggio in immagine di assoluta poesia. La sua solitudine rompe l’equilibrio simmetrico dei due gruppi ma esalta il corpo di Cristo che viene offerto in diagonale, quasi buca la tela, in un primo piano di valore assoluto. Se lo schema prospettico è asimmetrico e nuovo, ciò è dovuto all’effetto inquadratura, come se il pittore, usando ante litteraml’espediente cinematografico dello zoom, avvicinasse il gruppo eliminando ovviamente le quinte laterali: per questo vediamo soltanto la base della Croce, per questo della pia donna intravediamo poco più del profilo, e il lembo del sudario sembra scivolare fuori dall’angolo inferiore destro. Siamo chiamati in gioco, a entrare nel testo (“spectator in tabula”?), a credere, vedere, contemplare, e naturalmente piangere e pregare, la nostra cooptazione è frutto dell’illusione. Il sacrificio di Cristo, in tutta la sua umana sofferenza, ci viene offerto, posto dinnanzi con valore di exemplume con una perentorietà cui non possiamo sottrarci, accentuata da quella luce direzionale, significante, che da destra ne evidenzia il candore alabastro contro la luminosità del sudario. Una luce così pregna di valore, di senso, così lombarda, da far immaginare che la strada che, da qui a qualche decennio, porterà Caravaggio da Milano a Roma, passasse anche per Parma. Quest’opera l’avrebbe trovata nella cappella Del Bono di San Giovanni insieme al suo pendant (inv. 353, scheda n. 148), avrebbe compreso che quella luce non era soltanto simbolica, ma anche “naturale” (rispondeva infatti alla sistemazione delle due tele lateralmente rispetto a una finestra centrale), avrebbe riconosciuto quell’identificazione umana e popolare del sacro che forse cercava.
È talmente preponderante questa qualità “soltanto” umana dei personaggi, che solo avvicinandoci molto possiamo ravvisare le aureole: ma sono così sottili, sembrano così casuali da poter passare per superfetazioni. Ognuna di queste considerazioni ci porta fuori non soltanto dal clima e dalle regole del pieno Rinascimento, ma anche dal percorso artistico più celebrato di Correggio, tanto da rimarcare il carattere indubitabilmente eccentrico del nostroCompiantoe del Martirio(cfr. scheda n. 148), confermato da giudizi critici non sempre omogenee, talvolta disorientati (Freedberg 1971; Battisti 1979) o, per converso, dall’entusiasmo con cui se ne nutrì il Seicento barocco, da Annibale Carracci a Bernini. Suggestioni iconografiche, stilistiche (dunque anche religiose) che in qualche modo dovettero essere gradite, se non addirittura richieste, da Placido Del Bono, il monaco benedettino cui storicamente si attribuisce la committenza delle due tele, eseguite fra il termine dei lavori in San Giovanni (1524) e l’inizio del cantiere del Duomo (1526). Purtroppo sappiamo poco della formazione e della cultura di questo benedettino di nobile famiglia, ma qualcosa possiamo presumere dalla circostanza che divenne confessore del vescovo di Parma Alessandro Farnese, poi papa Paolo III: certo fu determinante nella scelta tematica delle due opere (nel 1522 è peraltro documentata la sua consulenza iconografica per la decorazione della cappella Bergonzi).
E il tema è, all’evidenza per entrambe e proprio nel reciproco rispecchiamento, quello del martirio, del sacrificio, e dunque dell’imitatio Christicome strada alla salvezza. Un tema centrale nel dibattito religioso dell’epoca e certo non estraneo al colto ambiente benedettino parmense, inserito nell’ambito riformato della Congregazione cassinese cui il monastero di San Giovanni (come quello di Polirone a San Benedetto Po, di Santa Giustina a Padova) aveva aderito dal 1477. Malgrado la relativa dispersione della biblioteca dell’abbazia parmense, possiamo ritenere che, nell’ambito di una vera e propria teologia della Croce, testi come l’Imitazione di Cristodi Tommaso da Kempis (1379-1471), le Meditazioni sulla vita di Cristodello pseudo Bonaventura della fine del XIII secolo, ovvero l’Arte del ben pensare e contemplare la Passione del nostro Signore Gesù Christo benedetto di Pietro da Lucca edito a Venezia nel 1525 (cfr. Ginzburg – Prosperi 1975), circolassero anche a Parma, così come si rivelano documentate letture dei maggiori esponenti religiosi della congregazione stessa (Muzzi 1982; Piva 1988). Se ad esempio nel caso di Lorenzo Lotto è il suo Libro delle spese diverse, insieme alla più attenta e partecipe lettura iconologica delle opere, a testimoniare (Prosperi 1998) l’inquietudine religiosa del grande pittore lombardo e la sensibilità a queste tematiche, non bisogna dimenticare che il rapporto di Correggio con la committenza benedettina, e dunque con la cultura religiosa dell’epoca, non è affatto estemporaneo. Al di là della continuità dei rapporti fra l’artista e l’Ordine, che viene configurandosi come una sorta di vero e proprio legame di mecenatismo intellettuale (il primo contatto nel 1514 con Polirone, nel 1519 a Parma per le benedettine di San Paolo, quindi il grande ciclo dei lavori in San Giovanni dal 1520 al 1524), più significativa ancora appare la sua totale e partecipata adesione al complesso programma iconografico dei monaci (Toscano 1974). Più che nota poi è la lettera del 14 settembre 1521 con la quale la congregazione Cassinese, a firma del presidente Girolamo da Monferrato, conferiva al pittore il diploma di fratellanza e comunione spirituale, con tutti i benefici che ne conseguivano, privilegio che in genere veniva concesso solo ai grandi benefattori dell’Ordine e che sottolinea ulteriormente il carattere del tutto particolare, e in qualche modo alla pari, che legava l’artista alla sua committenza. Superando dunque la convenzionale lettura, legittimata da Vasari, di Correggio artista “spontaneo” (ma si firmava, umanisticamente, “Laetus”), immediato e privo di filtri culturali, così perlopiù lo legge l’Ottocento che pure tanto lo ama, verifichiamo invece una volta di più nelle tele Del Bono quella capacità di rinnovare la tradizione stilistica e iconografica in termini di sostanziale originalità che non può certo andare disgiunta da una personale e articolata partecipazione alla contemporaneità del dibattito religioso. L’intima e umana rivisitazione dell’esperienza religiosa: è certo questa una qualità tipicamente “lombarda”, è la singolare congruità sentimentale e cronologica che mette in contatto inevitabilmente le opere dei due pittori più, apparentemente, solitari del ’500, Correggio e Lotto. Certo nei termini di affinità elettive, forse per qualcosa di più: Bergamo e Parma non sono poi così lontane…