Proviene dalla Sala del Capitolo dell’abbazia benedettina di San Giovanni Evangelista aParma, al pari dell’altra pala del Francia della scheda n. 98. L’autore, bolognese di nascita e solo tardivamente pittore, dopo gli esordi di orafo e di medaglista celebrati addirittura a stampa dal Salimbeni, dall’Achillini e da Gerolamo Casio e osannati da insigni fautori come Lucrezia Bentivoglio, si inserisce con le opere parmensi entro quel programma di rifioritura spirituale e artistica che toccò il grande complesso monastico dopo l’ingresso ufficiale dell’Ordine nella congregazione di Santa Giustina (1477).

La ricostruzione della chiesa e del monastero, dopo la devastazione degli edifici ad opera delle fazioni avverse all’abate commendatario Ugolino de’ Rossi, coinvolse una serie di artisti di grande caratura: Correggio, Parmigianino, Anselmi, Mazzola Bedoli e appunto Francesco Francia che concorse all’impresa in due tempi diversi, ma ravvicinati, con le due tavole ora in Pinacoteca (inv. 123 e 130) Il consenso unanime sulle capacità dell’artista bolognese mosso dal côté bentivolesco e la positiva risonanza fino al circolo culturalmente elitario di Isabella d’Este e Federigo Gonzaga a Mantova (con tali squisite asserzioni da farne un modello di armoniosa virtù) stanno alle radici della sua fortuna e anche della committenza per Parma, città nella quale solo pochi anni prima avevano trovato posto due capolavori veneti quali le pale di Cima da Conegliano per la cappella Montini del Duomo e per la chiesa dell’Annunciata, quest’ultima non a caso un tempo addebitata al Francia con il quale Cima condivide talune inclinazioni spirituali ed emotive di lucida medietà fra classicismo e natura. La firma dell’artista è ancora leggibile sotto gli strumenti del martirio, mentre è scomparsa la data inattendibile 1512, letta dal Lipparini nel 1913.

Si tratta di un’opera tarda il cui soggetto venne replicato almeno altre due volte con alcune varianti: in un esemplare oggi a Torino (Galleria Sabauda) firmato e datato 1515 e in quello di Londra (National Gallery), entrambi meno dilatati del nostro. Non vi è dubbio che la maniera secca assunta dall’aurifex bolognese nel secondo decennio del ’500 tende a una visione di sintesi che nel soggetto religioso assume toni di precoce riforma di immagini, sulla scia savonaroliana di Fra Bartolomeo e dell’Albertinelli. Come nella Crocifissione del Louvre il tema dei dolenti è affrontato, in una forma più asciutta e calligrafica, sulla tradizione della coroplastica padana innestata entro la lunga onda peruginesca degli anni giovanili. Il lessico è austero e raccolto nel dramma muto che si svolge al centro della composizione, segnatamente bloccato da quella Croce che divide e insieme congiunge lo spazio entro cui gravita il solo moto della pia donna a destra, versione devota della superba Giuditta che il Francia inventò con ogni probabilità per i perduti affreschi del distrutto Palazzo Bentivoglio di Bologna, a noi nota dal disegno conservato oggi alla Pierpont Morgan Library di New York. La tavola, nella sua lineare struttura, testimonia della feconda cultura di un artista che nella perfezione del segno e del gesto moderato è giunto al pieno virtuosismo delle sue forme, da vero artigiano rielaboratore di modelli.

Scheda di Jadranka Bentini tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.