In precedenza, prima delle soppressioni napoleoniche, la tavola si trovava nella chiesa di San Luca degli Eremitani e dalle note di Francesco Bartoli, aggiunte a margine per una ristampa nella Guida del Ruta (1780), conservata fra le scritture di Baistrocchi presso l’Archivio di Stato, si ha notizia che il dipinto non era propriamente collocato su un altare (era forse in origine in un’altra chiesa?), ma si trovava “entrando per la piccola porta dello stanzino dove peIl dipinto in passato fu attribuito alternatamente all’Araldi e a Lodovico da Parma (ora identificabile in Lodovico Marmitta), e con questa incerta paternità nel 1841 venne ceduto alla Pinacoteca dagli eredi Ferroni per 1500 lire (Atti dell’Accademia 1839-1846).

La grande tela ha l’aspetto di un’opera non ultimata o eseguita solo per fissare fedelmente l’iconografia dell’affresco leonardesco e poi non risolta nei passaggi chiaroscurali. Alla morte dell’artista era ancora nella sua bottega e fu donata l’8 aprile 1530 dall’erede Filippo Porzioli, marito della figlia Orsolina, alla confraternita dei Santi Cosma e Damiano, detta anche della “Disciplina Vecchia”, di cui l’Araldi era stato membro almeno dal 1507 (Scarabelli Zunti (a), II, f. 16v). Presso la confraternita rimase fino al 1841, anno in cui il rettore conte Luchino dal Verme, la vendette per la somma di lire 4000 alla Ducale Galleria (Atti dell’Accademia 1839-1846).

La data 1516, siglata con la firma nell’orlo della scollatura del penultimo Apostolo a destra, singolarmente coincide nel giorno e nell’anno con quella posta dall’artista nella pala Centoni in Duomo e questi elementi fanno presupporre che l’Araldi si fosse cimentato in questa grande copia negli anni di maggior attività, dato che buona parte delle sue opere rinvenute sono datate all’incirca fra il 1514 e il 1519.

Le dimensioni della tela appaiono molto ingombranti per essere una semplice esercitazione o una copia di trascrizione da stampe – come sembrerebbe più plausibile per i caratteri sommari con cui sono narrati i gesti e gli sguardi degli Apostoli – nonché gli oggetti posti sulla tovaglia, non propriamente simili all’invenzione leonardesca e per il disegno poco felice dei piedi dei personaggi e dei sostegni del tavolo.

Il penultimo Apostolo a sinistra inoltre non corrisponde al modello leonardesco e assomiglia piuttosto ai tanti San Giuseppe che ritornano in altri dipinti dell’Araldi, come se fosse una “firma” personale, un volto o modello a lui consueto.

Un documento pubblicato da Marzio Dall’Acqua (1990b, p. 28) suscita nuove ipotesi sulla conoscenza che l’Araldi poté avere del Cenacolo originale, se in effetti nel 1505 ottenne da “madona abatissa” di San Paolo il permesso di recarsi a Milano per vedere l’affresco di Leonardo o in alternativa ricevette il consenso per “…andare in altro locho per la dita opera…”. Questa sua richiesta presumibilmente aveva avuto origine da un’istanza del convento, forse per la decorazione terminata nel 1510 del coro della chiesa interna delle monache, dove Luchino Bianchino nello stesso anno aveva ultimato gli stalli, dato che aveva dipinto ad affresco scene andate perdute della Vita di Cristo, in cui vi era raffigurata anche l’Ultima Cena o si può immaginare che per il refettorio le benedettine avessero richiesto copia della famosa opera milanese e che la tela non fosse poi stata accettata per la sua “debolezza”.

In effetti la rotondità dei visi e l’ostentazione degli sguardi presuppongono, più che la conoscenza diretta dell’originale e un intendimento della “modernità” di Leonardo, una traduzione del modello iconografico tramite incisioni e copie, che ben presto si diffusero in area padana, non troppo distanti dal raggio operativo di Araldi, il quale tuttavia sembra avvertire vicende artistiche lombarde anche in altri dipinti.

Oltre alla copia già alla Certosa di Pavia e ora alla Royal Academy of Arts di Londra, assegnata per convenzione a Giampietrino (Shell-Brown-Brambilla Barcillon 1988) – che potremmo considerare possibile modello per la parte inferiore, ma non nella resa cromatica degli abiti e del fondale – sembra trovare più assonanze con quella dell’abbazia di Tongerlo (Rossi 1988) nella gestualità greve degli Apostoli.

Potrebbe aver avuto, inoltre, particolare rilevanza anche la copia di Girolamo Bonsignori (databile fra il 1510 e il 1514) nel refettorio del monastero di San Benedetto in Polirone (sebbene assai diversa nei piani prospettici), tela che si trovava inserita nella parete affrescata dal giovane Correggio (Piva 1988 e 1989, pp. 87-97), il quale poco dopo questa impresa riceverà le importanti commissioni a Parma, sia dalle benedettine di San Paolo che nel monastero di San Giovanni Evangelista.

L’Araldi deve aver desunto quindi l’eco della Cena milanese dall’ambiente monastico benedettino, la stessa cerchia intellettuale che fece da tramite per l’arrivo a Parma del Correggio, chiamato dalla badessa Giovanna da Piacenza, ma è anche plausibile che questa copia del Cenacolo fosse destinata a un altro convento.

Le fonti ricordano inoltre alcuni suoi dipinti anche nel monastero di Sant’Uldarico, sempre di monache benedettine, dove ancora nel XIX secolo si poteva vedere in un “dormitorio o refettorio” un affresco raffigurante Cristo in Croce, con san Benedetto, un santo vescovo e una monaca, forse donna Cabrina Carissimi, colei che nel 1505 commissionò il coro ligneo al Baruffi e fu ospite nel 1507 nel monastero di San Paolo per l’elezione di Giovanna da Piacenza. La badessa apparteneva alla nobile e potente famiglia Carissimi e presumibilmente doveva essere parente di quell’Alessandro Carissimi che aveva posato per Leonardo per le mani del Cristo proprio per il Cenacolo (Codice Forster, II, 6r.; Pedretti 1953, p. 143), forse durante uno dei soggiorni a Parma dell’artista vinciano (De Toni-Razzetti 1958, pp. 3-10; Adorni 1982, p. 45).

Anche Michelangelo Anselmi del resto aveva affrescato nella cappella dell’Inquisizione in San Pietro martire a Parma una copia del Cenacolo “di dimensioni pari l’originale” (Ghidiglia Quintavalle 1960b, p. 133), purtroppo distrutta con la chiesa nel 1813, il cui confronto con l’opera dell’Araldi avrebbe forse chiarito le interferenze culturali che circolavano in ambito parmense nei primi due decenni del XVI secolo, provenienti non solo dal territorio lombardo e veneto, ma anche umbro-toscano, giunte insieme al giovane Anselmi, approdato a Parma fra il 1516 e il 1520, dopo essersi formato a Siena sulla scia del Beccafumi e del Sodoma, tanto più che quest’ultimo è da considerare un discepolo di Leonardo, fra i tanti che erano con lui a Milano (Shell 1988, p. 15, nota 38).

Scheda di Mariangela Giusto tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.