Si tratta di una copia del primo ’700 per le caratteristiche della tela e della pennellata, di dimensioni ridotte rispetto all’originale oggi conservato a Capodimonte (inv. 373, cm 180 x 128), ma proveniente dalle collezioni farnesiane, la cui storia è stata puntualmente ricostruita in anni recenti (Leone De Castris – Utili 1994, pp. 248-251 e Utili 1995, pp. 310-312) grazie alla fitta rete di dati inventariali e di documenti che consentono di seguire passo passo i suoi numerosi spostamenti.

Il guardarobiere di Ranuccio I, Flaminio Giunti riceve il 10 ottobre 1611 tramite il cavaliere Alessandro Donella due dipinti di Schedoni: uno raffigurante San Sebastiano e un secondo più grande “co’ un’orbo un Putto che lo conduce, et una donna che ci fa elemosina co’ un puttino”.

Il quadro passa dal guardaroba del duca alla “Quarta Camera detta della Cananea” nel Palazzo del Giardino dove è ricordato nell’inventario del 1680 circa insieme ad altri tre dipinti dell’artista. Compare ancora con precisa descrizione nell’inventario della Galleria del duca del 1708 (cfr. Bertini 1987, n. 57) e a testimonianza del successo che riscuoteva fu inserito fra i cento capolavori della raccolta illustrata nel primo catalogo a stampa edito nel 1725 (Descrizione…). L’opera è poi variamente descritta a Napoli, Roma, Palermo e poi finalmente di nuovo a Napoli dove entra stabilmente nelle collezioni borboniche, da dove prende inizio una valutazione sempre estremamente elogiativa. La lettura che ne dà Miller rievoca tale successo e le fasi costruttive del dipinto che si può far risalire al 1611 o poco prima; appare anticipato da una redazione grafica quadrettata contenente il bambino sulla destra, oggi conservato a Chatsworth (cfr. Johnston 1979, n. 21) dove sono già presenti “effetti tonali che rispecchiano la fase di piena maturità dell’artista… e anticipano, di oltre un secolo, la pittura del bresciano Giacomo Ceruti”. L’opera sottolinea il diretto contrasto fra la luce e le tenebre, la povertà e la ricchezza che si desumono dagli abiti stracciati e dall’eleganza della figura femminile che offre la pagnotta, dalla sorprendente fissità del bambino che guarda lo spettatore come per richiamarlo a una profonda riflessione. Un grande quadro denso di richiami morali, non un’oleografia retorica della carità, ma un profondo elogio all’esistenza solidale che Schedoni interpreta con nuove forme comunicative allestendo un set immaginifico fra luci e ombre, pupille perse nel vuoto e occhi puntati sul riguardante esterno.

Su questo argomento della “carità” come aspetto focale dell’impegno dell’Ordine cappuccino e del duca Ranuccio I sono state recentemente pubblicate condivisibili considerazioni (cfr. Crispo 1998, pp. 7-58).

Proprio da questo significato diretto scaturirà il successo del quadro di cui si conoscono molte copie fra le quali basta ricordare quella in Palazzo Borromeo all’Isola Bella sul lago Maggiore, quella del castello di Pavlosk (San Pietroburgo) e questa della Galleria Nazionale che presenta alcune vistose varianti come il colore dei capelli del bambino in primo piano, biondissimo nell’originale e con i capelli scuri e meno inanellati nella copia che, dopo il recente restauro, ha rivelato una buona qualità traduttiva forse dovuta a un artista parmense del primo ’700 che avvicinandosi aria di trasferimento della collezione farnesiana a Napoli vuol lasciare qui traccia del tema e della risoluzione schedoniana.

Bibliografia
Miller 1986, p. 528
Restauri
1999 (C. Barbieri)
Scheda di Lucia Fornari Schianchi, tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Seicento, Franco Maria Ricci, Milano, 1999.