- Titolo: Carità
- Autore: Giovanni Maria Conti, detto della Camera
- Data:
- Tecnica: Olio su muro, trasportato su tela
- Dimensioni: cm 130 x 85
- Provenienza: Parma, portico dell’Ospedale Vecchio o della Misericordia
- Inventario: GN 766
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
Su di un fondo scuro campeggia una figura di giovane donna nell’atto di allattare un bambino e di reggere con la mano destra una fascia da neonato, mentre un secondo fanciullo le si appoggia alle ginocchia; seduta su di una seggiola di cui si intravedono i salienti dello schienale, indossa un corsetto scuro aperto sul seno e un’ampia gonna giallo-arancio.
Scritti eruditi e guide del XVIII e XIX secolo ricordano come “bellissima” e degna di ammirazione questa immagine di “nutrice”, personificazione devotamente popolare della Caritas, e ne indicano l’originaria collocazione a destra dell’ingresso dell’Ospedale degli Esposti, ossia dei trovatelli, al di sotto del portico dell’Ospedale della Misericordia sito nella strada maestra di Santa Croce (attuale via D’Azeglio).
In una bella raffigurazione della facciata del complesso ospedaliero appartenente alla raccolta di disegni e mappe del conte Alessandro Sanseverini, raccolta risalente alla fine del XVIII e soprattutto inizi del XIX secolo (ASP, Raccolta Sanseverini, v. I / 24), il dipinto in esame è appena percepibile, ma un successivo foglio (v. III / 4.VII) lo riproduce integralmente, mentre una pianta del primo piano (v. III / 4a) indica come al di sopra dell’ingresso vi fosse proprio la sala delle balie: l’iconografia così puntuale si legava dunque direttamente a quelle che erano le finalità dell’istituto.
Questo era sorto intorno al 1250 come ampliamento dell’ospizio a fini assistenziali fondato da Rodolfo Tanzi nel 1201 in borgo Taschieri (attuale Cocconi), ma fin dall’origine fu destinato esclusivamente agli orfani e ubicato in strada Santa Croce; e proprio qui si provvide alla ricostruzione di un nuovo grande complesso dopo il 1471, anno dell’unificazione di tutti gli ospedali cittadini nel Rodolfo Tanzi, con una prima consistente campagna costruttiva nel tardo ’400 e un successivo ampliamento, resosi necessario per l’aumentato numero dei trovatelli, nel XVI secolo. Fra i due corpi di fabbrica fu edificato nel 1663 l’oratorio dedicato a Sant’Ilario, protettore della città, affrescato tra l’agosto del 1664 e il dicembre del 1666 dal pittore parmense Giovanni Maria Conti, detto della Camera, pare, per il fatto di insegnare pittura in una grande sala presa a pigione (Cordaro).
Se si escludono le voci discordanti del Sanseverini e del Gabbi che fanno il nome di Girolamo Mazzola Bedoli, a partire dall’Affò e dal Baistrocchi è proprio al Conti che viene ascritta questa Carità e più precisamente il Bertoluzzi riporta un pagamento di lire 63 ad essa relativo, fatto all’artista nello stesso anno di conclusione dei lavori in Sant’Ilario, desumendolo probabilmente dal manoscritto dell’Affò – Ravazzoni che ancora più in dettaglio dice il dipinto posto al di sopra della ruota per ricevere i trovatelli. Il giudizio esageratamente lusinghiero e intriso di orgoglio municipalistico con cui Baistrocchi parla di questa Carità, “è qualche cosa da ammirarsi vedendovisi la morbidezza di Guido, le grazie parmigianinesche e nei bambini li vezzi del Correggio” concorre a definire quali siano le componenti del linguaggio di questo pittore, la cui attività si svolse in ambito strettamente locale e la cui formazione pare avvenuta presso la bottega di Pier Antonio Bernabei, col quale il padre Giovan Battista aveva eseguito un ciclo di affreschi per la parrocchiale di Arola, distrutti nel 1818, ma documentati dal contratto di allogazione del 1602 (Masnovo 1909, pp. 34-37). Secondo Mendogni (1986, p. 207) a tale anno andrebbe fatta risalire la nascita di Giovanni Maria, dal momento che la data 1614 già proposta dal Pelicelli (1912a, 336) non sarebbe stata correttamente individuata e che, non esistendo documentazione presso gli archivi del Battistero, si potrebbe supporre l’artista nato durante il soggiorno del padre ad Arola; ciò giustificherebbe meglio anche l’importante commissione degli affreschi per la chiesa di Santa Croce a Parma nel 1634 (Quintavalle A.O. 1940, pp. 259-264) che poco probabilmente sarebbe stata assegnata a un pittore appena ventenne.
Attraverso l’opera del Bernabei Giovanni Maria Conti rimedita la tradizione parmense, correggesca in particolare e parmigianinesca, recependo inoltre suggestioni dai cremonesi Gambara e Gatti e ancora in pieno XVII secolo propone formule che restano sostanzialmente tardocinquecentesche, “estranee al rinnovamento postcarraccesco di Schedoni e del Lanfranco” (Cordaro). I dipinti eseguiti a Santa Croce fra 1634 e 1638, in particolare gli Episodi della vita di san Giuseppe (uno dei quali confermerebbe l’alunnato presso il Bernabei, essendo ripresa puntuale di un disegno del più anziano pittore per il ciclo di Santa Maria dei Servi, cfr. Popham 1955, pp. 71-75) o quelli della Sacra Famiglia, si connotano per uno “stile fortemente descrittivo” e per “una volontà narrativa pacata e scorrevole” (Fornari Schianchi 1993, p. 56) del tutto consoni alla religiosià seicentesca e agli intenti di divulgazione della committenza ecclesiastica.
Tali caratteri ne facevano l’esecutore ideale anche per immagini votive come questa Carità, di immediato impatto e diretta persuasività, frequentemente presenti sulle pareti esterne di edifici sia religiosi che civili: assai noto e del pari lodato dalle fonti sette-ottocentesche era il perduto affresco da lui eseguito al Malcantone, angolo fra le attuali via Mazzini e Cavestro, raffigurante Adamo ed Eva con la Madonna e il Crocifisso. “Scrittura in prosa” (Fornari Schianchi 1993, p. 56) dunque, ma non sgradevole o qualitativamente scadente, anzi caratterizzata da una certa eleganza, ad esempio nel bell’episodio delle Nozze di Cana in controfacciata a Santa Croce. Anche nel dipinto in esame la figura della nutrice appare ben risolta, soprattutto nel busto e nel volto, morbido nella stesura pittorica ma anche nitidamente definito dal disegno nei lineamenti e nella preziosa acconciatura, a trecce raccolte con nastri, di gusto ancora manierista. Più corsiva la resa del fanciullo sulla sinistra e della parte inferiore dell’abito, che è comunque la zona maggiormente impoverita nella materia pittorica, con la probabile perdita di quegli effetti coloristici cangianti che negli stessi anni caratterizzano gli affreschi di Sant’Ilario.
Il distacco a massello fu effettuato quasi certamente nel secondo quarto del XIX secolo, dal momento che il dipinto è segnalato in Galleria per la prima volta nell’inventario del 1852, ma è ancora ricordato in loco dal Bertoluzzi nel 1830 e quindi anche da Negri nel suo elenco manoscritto di pitture e sculture esistenti sui muri esterni di vari edifici cittadini(in Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Materiale…), se attendibile la data 1843 riportata a fianco; successivamente, col restauro del 1949 si operò il trasporto su tela, per ovviare uno stato di conservazione assai precario derivante anche dalle carenze tecniche dell’intervento ottocentesco.