- Titolo: Capriccio romano con arco trionfale
- Autore: Bernardo Bellotto
- Data: 1740 ca.
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: 116 x 131
- Provenienza: acquistati dal conte Stefano Sanvitale nel 1835
- Inventario: Inv. 236
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: La pittura veneta 1600-1700
I quattro Capricci architettonici della collezione parmense – i due in esame e i due proposti nella scheda successiva – figurano nel catalogo bellottiano dal 1896, quando Ricci respinse una secolare e improbabile assegnazione a Francesco Guardi, proponendo un’attribuzione al nipote di Canaletto che è rimasta indiscussa e che davvero sorprende per la sua perspicacia.
Si sa, infatti, quanto sia recente la fortuna critica, e dunque la conoscenza, di Bellotto, a lungo penalizzato dalla confusione con quello zio materno, più famoso, che gli fu maestro e con il quale condivise il soprannome. L’epiteto – quasi un vezzeggiativo – pare, peraltro, sia stato adottato in prima istanza proprio da Bernardo, che rispettosamente si propose come “piccolo Canal” – Canaletto appunto – nei confronti del “grande” Giovanni Antonio Canal: la diffusione del diminutivo, che divenne presto noto, costrinse, paradossalmente, anche il “grande” a ricorrervi, “un omaggio obliquo al magnifico talento e all’evidente successo del nipote” (Mason 1999, pp. 19-21).
Secondo modi consueti a una pittura dotata di un alto valore ornamentale, i dipinti parmensi sono concepiti in coppia, nella prospettiva di una collocazione simmetrica od opposta sul muro. Un allestimento decorativo assai frequentato, nelle quadrerie come nell’arredo, che ci pare destinato a coinvolgere contestualmente tutte quattro le tele bellottiane, anche per il gioco interno di un identico formato diversamente utilizzato: in una coppia orizzontalmente, nell’altra verticalmente. Riconoscerne una reciprocità progettuale significa naturalmente postulare un’unica committenza per entrambe le coppie. D’altra parte l’evidente omogeneità non solo tematica ma anche linguistica e formale rende almeno certa l’appartenenza dei dipinti a un unico momento creativo e conferisce al gruppo una compattezza che anche le vicende collezionistiche, in genere dispersive e assai poco rispettose di antichi legami, hanno saputo conservare.
Di quelle vicende, a dire il vero, si conoscono solo gli ultimi sviluppi che un recupero archivistico consente oggi di precisare. La provenienza dalla prestigiosa raccolta Sanvitale dichiarata dagli antichi cataloghi non era confermata, come faceva notare Marini 1990a, da alcun riscontro documentario: le tele non risultano infatti comprese nella collezione che la Reale Accademia acquistò da Luigi e Giovanni Sanvitale nel 1834-35 (Inventario… 1834), né d’altra parte figurano nell’inventario che di quella collezione, conservata nel palazzo urbano della famiglia, fu compilato quattro anni prima dal pittore Filippo Morini (Morini 1830).
Lo specifico riferimento, a proposito della provenienza, al conte Stefano Sanvitale contenuto nel più antico inventario accademico e poi solo episodicamente ripreso, ha orientato in altre direzioni la ricerca. L’anziano conte, padre di Luigi e Giovanni, non aveva in alcun modo partecipato, almeno ufficialmente, alle trattative di cessione della quadreria familiare, salvo poi rivelarsi promotore di autonome e riservate iniziative di vendita all’Accademia, in merito a dipinti rimasti in sua proprietà e probabilmente conservati nell’antica e privilegiata dimora di Fontanellato. Così entrarono in Galleria nel 1838 due delle quattro tele del Tempesta nonché le copie da Parmigianino di Boselli (Cattani 1999, scheda n. 609 e Viola 1999, scheda n. 618) e allo stesso modo vi pervennero già nel 1835, sotto mentite spoglie, i quattro Capricci bellottiani. L’11 marzo di quell’anno Paolo Toschi, direttore dell’Accademia, scriveva una lunga lettera al presidente dell’Interno (Registro delle lettere… 1835-1843) per sollecitare, con comprensibile fervore, l’acquisto di “quattro bellissimi e grandi quadri del Guardi… tra le opere migliori di questo pittore distinto” rimasti in proprietà privata del conte Stefano, il quale era tuttavia disposto a cederli per lire 200 ciascuno. Il prezzo, davvero assai modesto, viene ribadito dal conte, nonostante l’espresso stupore di Toschi, a patto “che non avesse tal prezzo ad essere diminuito e fosse questo affare trattato privatamente e senza alcuna pubblicità”.
Un atteggiamento di non ostentata munificenza che ancora il conte mostrerà nella citata compravendita del 1838 e rispetto al quale si fa fatica a discernere quanto vi sia di autentico o quanto piuttosto giochino le difficoltà economiche di una nobiltà in decadenza, sulle cui alienazioni andavano costituendosi le nuove raccolte pubbliche.
Ad ogni modo l’opportunità dell’acquisto dovette risultare subito chiara, a giudicare dalla rapidità inconsueta con cui si concluse “il contratto”: il 28 marzo la presidenza dell’Interno trasmetteva all’Accademia la somma pattuita (Carteggio 1835), consentendo l’immediato trasferimento dei quadri. È l’esito di un itinerario collezionistico che dovette avere tappe più numerose di quelle note, risultando poco credibile – e comunque tutta da dimostrare – una committenza diretta da parte dei Sanvitale, come anche un’acquisizione delle tele immediatamente a ridosso degli anni in cui furono dipinte.
L’antica propensione di Parma a frequentare la pittura veneta si manifesta anche in epoca settecentesca, ma con commissioni, fra l’altro ecclesiastiche, a Tiepolo, Piazzetta e, prima, a Sebastiano Ricci, mentre in nessuno degli inventari conservati relativi alle quadrerie nobiliari capita di incontrare il nome di un vedutista veneziano. Quasi scontata, d’altra parte, questa assenza. Del grande exploit pittorico della Venezia del ’700, il mecenatismo italiano, si sa, apprezzò in prima istanza i fasti e gli splendori del Rococò, lasciando il vedutismo a una committenza quasi esclusivamente straniera, in larga misura grandtourista, certamente più interessata ai souvenir pittorici del Bel Paese, ma anche più aperta e sensibile di quanto non fosse quella italiana ai nuovi valori di verità e razionalità ispirati dall’Illuminismo. Si consideri poi, nello specifico, che Bellotto abbandonerà presto, appena venticinquenne, l’Italia diventando in fondo un pittore straniero.
In questo contesto è lecito presumere come tardivo l’arrivo a Parma, fra l’altro sotto falso nome, dei Capricci bellottiani. Anche se risulta quanto meno intrigante – sia detto per inciso non potendo andare oltre la registrazione di un semplice dato – la parentela dei Sanvitale con il ramo parmense di quei Simonetta milanesi (Gambara 1966, p. 491 e pp. 745-748; Cirillo – Godi 1988, pp. 43-59) che, nella figura del conte Antonio e della moglie Teresa Castelbarco, furono gli unici committenti italiani documentati del Bellotto (Marinelli 1990b, p. 40). Per loro il pittore dipinse le splendide vedute di Vaprio e Canonica d’Adda (Camesasca 1974, nn. 48-51), negl’anni del suo girovagare in terre lombarde, venete e piemotesi, dopo il viaggio a Roma del 1742 e prima della partenza dall’Italia nel 1747, alla volta della Corte di Dresda, e poi di Vienna, Monaco e infine Varsavia, verso un destino, un po’ desueto ma privilegiato e brillantissimo, di “artista del potere”.
All’ultimo periodo italiano appartengono senz’altro anche le tele parmensi, chiaramente memori dell’esperienza romana – che dunque si pone come indiscutibile termine post quem – ma anche testimonianza di un ormai avvenuto distacco dai modi canalettiani e di una raggiunta autonomia linguistica, cui proprio quell’esperienza di viaggio dovette contribuire in modo decisivo.
La frequentazione del tema romano, certo sollecitata dal viaggio recente, ben si colloca del resto in quei primi Anni quaranta che videro il vedutismo a tema veneziano messo in crisi dalla drastica riduzione del flusso turistico nella città lagunare, a seguito della guerra europea per la successione austriaca. Sono gli anni in cui lo stesso Canaletto, forse attingendo anche dai taccuini bellottiani, “passò a rifare vedute romane… finché si decise infine a partire per l’Inghilterra a ritrovare i suoi danarosi clienti” (Marinelli 1990b, p. 40). E poco dopo se ne andrà, e definitivamente, anche Bellotto. La coppia in esame rappresenta un genere di capriccio architettonico assai fantasioso e di notevole, quanto inconsueta, densità compositiva. Il tipico meccanismo di arbitrario montaggio attinge qui a diversi contesti urbani e assembla elementi non precisamente identificabili, anche se del tutto plausibili, più ispirati che tratti dal vero.
Nel primo campeggia al centro una porta civica aperta su una veduta urbana dove sono forse riconoscibili edifici padovani: la torre del castello di Ezzelino, la cupola e il campanile del complesso conventuale di Santa Giustina (o forse – come suggerisce Marini – quelli della basilica veneziana di Santa Maria della Salute); a destra, in scorcio prospettico, il tratto di una cinta muraria, ipoteticamente identificata da Kozakiewicz con quella aureliana, e in primo piano scenico una fontana con la statua di Nettuno; sulla sinistra una casa di chiara foggia veneziana. E sono proprio le memorie venete ad ancorare saldamente il dipinto al periodo italiano, mentre la stesura formale, già così tipicamente bellottiana, ne precisa l’appartenenza, all’interno di quegl’anni ancora giovanili, a un momento tardo, in cui l’originalità linguistica può dirsi acquisita. I toni freddi e i marcati contrasti chiaroscurali prendono le distanze dalla statica solarità di Canaletto e già diventa segno connotativo la precisione incisiva e analitica con cui si rappresentano gli elementi architettonici, pur all’interno di una dimensione che rimane marcatamente scenografica (si noti, su suggerimento del Marini, il gioco quasi piranesiano di diagonali contrapposte disegnato dalle scale della cinta che tuttavia convive con il dettaglio cronachistico delle tende che gonfiate dal vento fuoriescono dalle finestre).
Per quel che riguarda il gruppo di edifici urbani centrali, un analogo assemblaggio sintattico si riscontra in disegni, sia di Canaletto che di Bellotto (Puppi 1988b, p. 433), a ribadire la consolidata prassi di utilizzare in modo iterativo gli stessi elementi – tratti dal vero e conservati nei taccuini o nella memoria – all’interno di variate combinazioni compositive. Precisamente riferibile al dipinto in esame è un disegno conservato a Windsor che Marini (Marini 1990b, scheda n. 41) ha recuperato dal catalogo canalettiano e restituito a Bellotto. “Tra disegno e dipinto si verifica già tutto il gioco capriccioso delle varianti e delle repliche” (Marini 1990a, p. 140): la redazione pittorica aggiunge, sostituisce o semplicemente sposta certi elementi, con un esito di maggior affastellamento compositivo, e anche di minor coerenza, rispetto alla versione grafica. L’avanzamento della porta verso il primo piano scenico produce, ad esempio, l’incongruo addossamento delle scale alla colonna della porta stessa, mentre il prolungamento del muretto, davanti ad essa, sulla sinistra, finisce in un palese errore prospettico.
Quest’ultima variante, certamente apportata per meglio ambientare le figure, può confermare l’ipotesi, già avanzata da Ricci e largamente condivisa dalla critica successiva (respinta solo da Kozakiewicz e Puppi), di un intervento nel dipinto di Francesco Zuccarelli per quello che riguarda le macchiette, e naturalmente il loro raccordo con le parti architettoniche. La distanza tra le figure del disegno, certamente del Bellotto, e quelle del dipinto è indubbia e non del tutto riconducibile alla diversità del mezzo espressivo. La redazione un po’ leziosa e manierata, a tocchi corposi di pennello, che secondo Kozakiewicz sarebbe solo un’episodica concessione bellottiana alle morbidezze rococò, non corrisponde ai modi quasi caricaturali con cui l’artista in genere tratteggia le figure, costruite più sinteticamente, a pennellate lineari con “un effetto squadrato che rimane inconfondibile” (Pignatti 1966, p. 226).
E che neppure si ritrova nelle figure del Capriccio che fa da pendant a quello finora esaminato, confermando per questa coppia una collaborazione esecutiva che rimane unica nell’attività di Bellotto, ma che rimanda a una prassi consueta negli entourages artistici veneziani di Smith e Algarotti. Nel pendant il tema romano è più esplicitamente presente seppure ancora inquinato da reminiscenze venete. La veduta è inquadrata da un portico ad arcate che si eleva in primo piano, secondo un’idea compositiva che Bellotto sperimenta con insistenza, certamente ispirato dagli esempi romani di van Wittel (ma anche da Marco Ricci). Un’analoga impaginazione si riscontra in vedute quali l’Arco di Tito con il Foro romano e il suo pendant (Camesasca 1974, nn. 27 e 30), ma anche nel Capriccio con il Campidoglio di cui alla scheda successiva, e ancora in opere del secondo periodo dresdense (Kowalczkyk Trupiano 1995b, p. 308).
Sempre in primo piano, sotto il portico, a fiancheggiarne l’arcata centrale, sono due piedistalli reggenti, quello di sinistra, un’urna e quello di destra il leone dell’Arsenale veneziano. Poi si apre la veduta, articolata su diversi piani ad abbracciare un arco trionfale romano – a lungo erroneamente identificato con quello di Tito – e, sullo sfondo, un paesaggio urbano. Qui il capriccio diventa quasi provocatorio. Bellotto gioca con uno stereotipo vedutistico assai abusato, quello della Roma sul Tevere presso Castel Sant’Angelo, sfruttandone l’immediata riconoscibilità per poi sorprendere con lo scarto: un ponte veneziano si sostituisce a quello romano di Sant’Angelo e ancora elementi veneti – forse la torre padovana di Ezzelino, senz’altro quella della Dogana di Venezia – si insinuano fra la Mole Adriana, le cupole emergenti di San Pietro e la piramide di Caio Cestio, palesemente fuori posto, in una dimensione che altera i rapporti proporzionali degli edifici dichiarando il valore tutto scenografico dello scorcio.
L’immagine è densa ma razionalmente strutturata, le architetture, come sempre, precisamente descritte, nettamente definite, quasi incise: concrete e dettagliate verità in una finzione scenica di cui è parte anche la luce, fredda e argentea, priva di mezzi toni, tipicamente bellottiana, che a quelle verità conferisce un nitidezza tanto artificiale quanto sorprendente. In fondo è anche questa “la precisione stregata” di longhiana memoria (Longhi 1973, p. 99).