- Titolo: Capriccio con rovine romane
- Autore: Francesco Maria Costa
- Data: 1710-1730
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: 72 x 94
- Provenienza: In Galleria nel 1791
- Inventario: Inv. 536
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Il Grand Tour
Si deve a Corrado Ricci (1896, p. 357), seguito poi dal Sorrentino (1931) e dal Quintavalle (1939, p. 315), l’attribuzione di questa tela che l’Inventario del 1874 registrò come opera di ignoto, a uno dei più brillanti allievi di Gregorio de Ferrari, il genovese Francesco Maria Costa.
Diroccate vestigia dell’antichità romana compongono la scena, orchestrata con consumata perizia prospettica dal pittore, la cui ampia e diramata attività si espletò principalmente a Genova nel settore della grande decorazione a fresco, ove tuttora si conservano numerose testimonianze delle sue quadrature condotte di concerto con lo stesso de Ferrari e con il figlio di Domenico Piola, Paolo Gerolamo (1666-1728) che – lo ricorda il Ratti – “del solo Costa per le prospettive servivasi” (Ratti 1769, p. 245).
Quadraturista di fiducia di “casa Piola”, prospettico ampiamente affermato presso la più colta ed esigente committenza genovese, che sul volgere del ’600 e nei primi decenni del secolo successivo andava rinnovando l’apparato pittorico delle antiche dimore gentilizie, il Costa, che fu talora confuso con Gianfrancesco (1711-1772), architetto, pittore e scenografo veneziano autore di un trattato di prospettiva (Elementi di prospettiva per uso degli architetti, e pittori esposti da Giovan Francesco Costa Architetto e Pittore veneziano) edito a Venezia nel 1747, diffuse una quadratura “soda”, di schemi architettonici spaziali illusivi secondo la più rigorosa impostazione emiliana e bibienesca – determinante fu, è noto, per la vicenda del quadraturismo genovese l’apporto dei quadraturisti emiliani presenti in città fin dalla metà del ’600 – poi arricchita da volute, conchiglie e festoni come nelle sale del palazzo di Giacomo FiIippo II Durazzo a via Balbi (1722) (Gavazza 1995, pp. 59, 68-70), ormai prossima a volgere, sono gli Anni venti del ’700, a un formulario decorativo di motivi esuberanti, che inclina al più aggiornato linguaggio rococò.
Consistente la documentazione sull’attività di quadraturista svolta dal Costa a Genova, inizialmente al fianco di Gregorio de Ferrari, quindi col figlio di questi, Lorenzo, poi in un sodalizio fecondo con Paolo Girolamo Piola (interrotto solo dalla morte di Paolo Girolamo nel 1728), ma che lo vide al fianco di Domenico Parodi in Palazzo Negrone (1700 circa), frequentatore assiduo dei più importanti cantieri genovesi in un rapporto di proficua interazione sia con Giuseppe Palmieri (1725) sia con Sebastiano Galeotti, col quale collaborò a più riprese, in una felice e proficua consonanza operativa. Un’attività di primissimo piano quella del Costa, in anni in cui a Genova il ruolo del quadraturista aveva acquisito concretezza operativa nell’ideazione dell’apparato decorativo del palazzo.
A una così estesa operatività di frescante condotta con disinvolta abilità, non seguì una pari produzione di quadri da cavalletto. Piuttosto esiguo è infatti il suo catalogo in questo specifico settore, che riunisce poche tele, fra le quali si ricorda il Paesaggio con rovine del Quirinale (già Firenze, Galleria degli Uffizi).
Il fascino dell’Italia e il mito dell’antichità classica attirarono schiere di grandtouristi. “Un sontuoso corteo di viaggiatori” (de Seta 1998) e di artisti scese nei luoghi dipinti da Poussin e da Lorrain. Le vestigia del passato incombevano sulla Roma del ’700. E la Città Eterna disegnata instancabilmente dai pittori francesi “nelle forme di un classicismo monumentale” (Ottani Cavina 1994) deriva dalla Roma eternata, città di memorabili scenari, grandiosi e imponenti, impeccabili nel gigantismo dei volumi architettonici. Roma con la campagna romana è il baricentro di questo itinerario, con una direttrice verso sud, Gaeta e il regno di Napoli. Luoghi visti alla luce dei testi classici, da Virgilio a Ovidio, con un’ossessione concentrata sul passato classico e tramandata ai posteri dai disegni e dalle gouaches che gli artisti ampiamente eseguivano. Ideale galleria di “ritratti” di città e di paesaggi. Immagini della Mater Tellus di lucreziana memoria, soggetto preferito per molti pittori nordici, scoperta della Roma antica e della Roma moderna nelle tele del Panini, oggi al Louvre. Come dire, i mutevoli paesaggi d’Italia e l’Antico. Dallo spettacolo “pittoresco” di una terra come i Campi Flegrei che affascinò con i suoi bollori Michael Wutky e Wright of Derby, ai Colossei amati da Hubert Robert e Cosenz, alle cascate di Tivoli di Fragonard, ai laghi laziali di Hackert. Soggetti ricorrenti e assai richiesti. E, ancora, le innumerevoli gouaches, le incisioni e i modellini di celebri monumenti, i calchi della statuaria antica cui attesero Bartolomeo Cavaceppi e altri. Dai dipinti alle incisioni ai testi letterari emergono gli interessi e le scelte di gusto dei tanti artisti attratti nella terra delle Esperidi.
Roma luogo reale, ma soprattutto luogo della memoria. Su questa linea, autonoma dalle ricognizioni antiquarie come pure dalla componente geometrico-razionale che di lì a qualche anno disciplinerà i paesaggi governati dalla Ragione, si muove il Costa, di cui non è noto un soggiorno romano.
Ciò nonostante a un siffatto campionario di frammentarie testimonianze dell’architettura monumentale – templi corinzi e un arco di trionfo, colonne spezzate e altorilievi, cornici, capitelli e frammenti di trabeazione giacenti a terra con intelligente disordine – attingeva con sicura competenza e con larghezza di strumenti il pittore genovese, che piacevolmente anima la scena con coppie di figure intente a diverse occupazioni, rese con un pennelleggiare sciolto e con un fare di sottili preziosismi formali.
Nitida è anche la resa dei partiti architettonici, sui quali spuntano ciuffi erbosi che armoniosamente si integrano ai marmi fra i quali si aggirano le figurette. Fra rovinismo e archeologia, il pittore sviluppa la scena in senso atmosferico con una sensibilità cromatica propria della civiltà figurativa veneta e con un fare pittorico che evoca alcuni esemplari del più noto Mirandolese (1673-1741) che nelle tempere Aldrovandi (1724 e 1733) impalca complesse impaginazioni architettoniche all’interno delle quali il riferimento alle rovine dell’antica Roma – templi in rovina, statue clipeate, urne e bassorilievi – frammenti immaginari e reali, si fa più esplicito. Accanto ad architetture diroccate secondo un’iconografia a lui propria, il gusto del Mirandolese inclina al recupero di un Medioevo di chiese gotiche e di mura dall’arco a sesto acuto, in una scandita impaginazione compositiva ammorbidita dall’inserzione di graziosi paesetti dai contorni sfumati. Non è questa la sede per intrattenersi sul complesso problema Mirandolese, su cui si è di recente appuntata l’ampia e circostanziata indagine della Bandera (1990) che, stante la frammentarietà delle notizie e l’esiguità dei riferimenti cronologici relativi alle sue opere, ne ha ricostruito con intelligenza di rimandi e di sollecitazioni la formazione bolognese presso il Chiarini, l’“ultimo grande scenografo” del ’600 (Molinari 1968, p. 212), il soggiorno viennese e la successiva attività di decoratore e di pittore prospettico.
Non è tutt’oggi nota la provenienza della tela del Costa – menzionata in Galleria dal 1791 (Quintavalle 1939, p. 315) – che si ipotizza eseguita allo scadere del secondo decennio del ’700 o poco oltre, nella quale alla struttura architettonica, prospetticamente protagonista, concorrono elementi di gusto classico, propri di un artista colto che ha maturato una sicura esperienza nei settori affini della quadratura e della scenografia, sorretto in ciò da una profonda conoscenza della trattatistica architettonica. Lo attesta la provata perizia qui e altrove esibita dal pittore a descrivere con minuzioso dettaglio ogni marmoreo argomento, sulla scorta di una tradizione pittorica che ebbe in Roma nel ’600 il suo fortunato luogo di origine. E fu proprio quella corrente che Giovanni Paolo Panini seppe trionfalmente affermare, e alla quale aderirono pittori nordici e non – a cominciare da Alessandro Salucci (1590-1660), Jean Lemaire (1601-1659), Viviano Codazzi (1603-1670) che seppe rendere la consistenza tattile dei volumi architettonici mediante una studiata orditura luministica (e il riferimento è, fra gli altri, alla Chiesa di San Lorenzo in Miranda a Roma di collezione privata o alla Passeggiata, di Palazzo Rospigliosi Pallavicini), Giovanni Ghisolfi (1623-1683), paniniano ante litteram, autore di visioni romane connotate da elementi classici fantasiosi, Pietro Francesco Garoli (1638-1716), fino ad Alberto Carlieri (1672-1720 circa) e a Giovan Francesco Costa poc’anzi citato – fu quella la corrente nella quale più stringente e fecondo si rivelò il legame fra scenografia e vedutismo, la medesima nella quale Francesco Costa progettò e dipinse antiche vestigia recuperate da una classicità a lungo indagata. A conferma di un esercizio pittorico condotto non solo d’après nature. Presumiamo che il Costa avesse una propria biblioteca. D’altra parte – come annotava il marchese Vincenzo Giustiniani – il pittore di prospettive doveva avere “pratica dell’architettura ed aver letto libri che di essa trattano…”.
È del resto ormai ampiamente acquisito che la pittura italiana di rovine derivi dalla quadratura e che fecondi e molteplici siano stati gli scambi fra i quadraturisti, i pittori di rovine e gli scenografi. E Bologna in questo specifico settore offrì testimonianze di indiscussa qualità, a cominciare dalle prove prodotte dagli scenografi – e non solo i Bibiena – che progettarono e realizzarono architetture dipinte non diversamente dai vedutisti e dai pittori di rovine.