A confronto della precedente, con la quale la riteniamo in serie a condividere un unitario progetto pittorico, la coppia in esame sperimenta un genere di capriccio meno dispersivo, più coerentemente concentrato su pochi elementi, tutti romani, in uno schema compatto e, in entrambi i casi, di grande effetto scenografico. Il primo dipinto propone uno scorcio del Campidoglio dai piedi della cordonata michelangiolesca e lo scarto rispetto alla veduta reale si consuma tutto in quell’immaginato arco in rovina che si eleva in primo piano, come un teatrale boccascena, a inquadrare il luogo urbano vero, consegnandolo alla finzione del capriccio.

Così, fra l’altro, la Roma moderna, in fondo privilegiata nel catalogo bellottiano, si combina con quella antica (non importa se inventata perché del tutto plausibile), la Roma cara a Panini e a Piranesi, nobile e magniloquente ma in frantumi, in un confronto che i valori luministici enfatizzano come contrasto. Ombre dense, a macchia d’inchiostro, consuete in Bellotto, invadono le rovine del proscenio, mentre in scena alla Roma capitolina si riserva il nitore, altrettanto consueto, di una luce fredda, quasi metallica che esalta la prodigiosa precisione del vedutista e la raffinatezza della sua prassi pittorica.

L’artificioso abbinamento fu forse suggerito dalla memoria conservata di un’immagine reale della Roma settecentesca, quella ai piedi del Campidoglio, ma dal lato del Foro: qui il fornice centrale dell’Arco di Settimio Severo incorniciava un’altra antica cordonata che, al pari di quella opposta, saliva al colle capitolino. Lo scorcio si trova rappresentato in un disegno di Hubert Robert conservato a Valence e risulta identico, come impatto visivo, a quello del capriccio bellottiano (Pietrangeli 1978, I, pp. 96-98). Giochi della memoria dunque che si mescolano a quelli della fantasia a disegnare una città non reale ma possibile: in fondo realizzare un capriccio è riprogettare lo spazio urbano, anche se solo al fine di attribuirgli una maggiore efficacia scenografica.

L’inquadratura, ridotta dall’interferenza dell’arco, riprende il Campidoglio da ovest così da includere la chiesa di Santa Maria in Aracoeli e sfruttare il gioco scenografico delle due scale divergenti. Alla sommità di quella michelangiolesca si eleva il colossale gruppo marmoreo con Castore (quello con Polluce, sulla destra è coperto dall’arco), mentre in affaccio sulla piazza sono visibili il secentesco Palazzo Nuovo, in scorcio, e il prospetto parziale del Palazzo Senatorio.

È la stessa veduta della Roma capitolina che Bellotto propone nel dipinto di Petworth House (Camesasca 1974, n. 32), identificato da una parte della critica con quel Campidoglio a Roma che secondo lo Zanetti il pittore espose nel 1743 alla Scuola di San Rocco, al suo rientro da Roma. Per l’esecuzione di questo dipinto, come per quello parmense, l’artista certamente utilizzò il disegno conservato a Varsavia (Kozakiewicz 1972, n. 78) dove l’immediatezza del tratto, che abbozza le sagome degli edifici e trascura la ripetizione dei dettagli architettonici, è quella tipica di un taccuino di viaggio. Si tratta chiaramente di uno schizzo dal vero, uno dei numerosi appunti grafici che Bellotto dovette realizzare durante il soggiorno romano per poi trasferire su tela, opportunamente ingranditi, in luoghi e tempi lontani da quelli del rilievo. Non troppo lontani, questi ultimi, tuttavia: il recupero dello schizzo doveva poter contare sulla memoria conservata del luogo. È sintomatico che per una tarda versione di questo soggetto (Camesasca 1974, n. 210; Busiri Vici 1976, p. 41), datata 1768 e fra l’altro contestualmente firmata da Bernardo e dal figlio Lorenzo, si utilizzi, palesemente, come riferimento una nota acquaforte piranesiana (lo dimostra il più alto punto di vista e la maggiore dilatazione dell’immagine e lo conferma il fatto che la derivazione dall’opera grafica di Piranesi è esplicitamente dichiarata per altre vedute romane con cui questa è in serie).

Nelle figure che animano il paesaggio urbano, la critica più recente è pressoché concorde nel riconoscere, a differenza dell’altra coppia, l’autografia bellottiana, seppure in una evidente, quasi asserita imitazione dello Zuccarelli. Il mendicante sdraiato sulla destra e il cane scattante, che peraltro appartengono a un repertorio abusato, sono una pedissequa citazione dal Capriccio con porta civica dell’altra coppia. Ma la stesura formale è diversa, più decisa e meno “vaporosa”, lontana, per certe asprezze espressive, dalla leziosità dello Zuccarelli. A queste figure, condizionate dall’imitazione ma stilisticamente tipiche del Bellotto, se ne mescolano altre di chiara “cifra canalettiana” (Succi 1988, p. 30), come la coppia elegante e un po’ affettata che sta salendo alla piazza.

Un riferimento a Canaletto che puntualmente torna in alcune delle macchiette, anche queste chiaramente autografe, del pendant: si veda la coppia di grandtouristi in secondo piano, intenta a contemplare il Colosseo.

La Roma antica per antonomasia è protagonista assoluta di questo secondo dipinto che si concentra su pochi, colossali frammenti della classicità, sottratti al loro reale contesto topografico e ricomposti in un nuovo e inventato rapporto. E davvero sorprende come, per la coerenza finale, l’artificio non venga percepito come tale, almeno nell’immediatezza visiva e nonostante la notorietà delle architetture messe in gioco. È la prova di una grande sapienza compositiva e un esempio eclatante di come nel genere del capriccio “sia il dipinto a sancire il sito rappresentato e non viceversa” (Succi 1988, p. 23).

Sulla sinistra dell’immagine si elevano, in funzione di monumentale e raffinatissima quinta, le tre colonne corinzie superstiti del Tempio dei Dioscuri, qui trasportate dal Foro; davanti ad esse, in primo piano scenico, una fontana che non è, come è stato generalmente proposto, quella di Giuturna (fra l’altro non ancora scavata ai tempi del Bellotto), ma piuttosto quella costruita, attingendo alle stesse acque, in epoca tardocinquecentesca nell’allora Campo Vaccino (Pietrangeli 1978, III, pp. 82-83). Essa compare in alcune vedute bellottiane del Foro, in un rapporto con i resti del Tempio dei Dioscuri che risulta qui alterato per esigenze compositive: i due elementi non sono affiancati, come lo erano nella topografia reale, ma si dispongono uno davanti all’altro a segnare diversi e successivi piani scenici. Dietro di essi campeggiano i resti grandiosi, invasi dalla vegetazione, del Colosseo, mentre sulla destra in fondo si intravede, incongruamente, la Piramide di Caio Cestio.

La puntualità, quasi maniacale, con cui si dettagliano le architetture e il loro sgretolarsi non trascura nulla: le giunture dei blocchi nelle colonne, le fratture nella trabeazione soprastante e ancora, nel Colosseo, le sbrecciature anche minime, i brani di muratura rimasti nudi, le arcate tamponate e quelle trasformate in finestre di precari alloggi. Uno scrupolo descrittivo che l’ottica ingrandita esalta ma anche rivela come del tutto superficiale. Lo sguardo del pittore si appunta senza distrazioni solo sulla “pelle” delle architetture, che risultano così minate da una sorprendente fragilità strutturale. Della monumentalità classica, in queste rovine, scompare la potenza della struttura a tutto vantaggio della grammatica compositiva.

Si tratta di uno slittamento a favore dell’immagine pittorica che Bellotto compie con mano comunque felicissima, e memore di un’esperienza archeologica che non si può non presupporre come recente, a confermare una cronologia dei dipinti immediatamente a ridosso del viaggio romano. Di quell’esperienza, certamente distante dalle intenzioni filologiche piranesiane, dovevano ancora conservarsi nitide e intense le impressioni, quel senso di grandezza perduta, di desolazione comunque solenne che il dipinto, anche nella “maniera” del capriccio, trasmette come autentico.

Non può non venire in mente il Goethe del Viaggio in Italia, che quarant’anni dopo guarderà, con occhi emozionati e affranti, quelle stesse “vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l’una e l’altra, la nostra immaginazione” in una Roma “in cui solo ci si può preparare a comprendere Roma” (Goethe 1816-1817, ed. cons. 1997, p. 143).

Bibliografia
Registro… 1835-1843;
Carteggio 1835;
Inventario… 1852, nn. 373-374;
Inventario… 1874;
Martini 1875, p. 20;
Pigorini 1887, 28;
Ricci 1896, pp. 357-358;
Sorrentino 1931, pp. 12-13;
Quintavalle A.O 1939,
p. 143;
Ghidiglia Quintavalle 1960, p. 36;
Ghidiglia Quintavalle 1965, tav. XXXV;
Kozakiewicz 1972, schede nn. 126 e 129, pp. 94-96, fig. pp. 97-98;
Camesasca 1974, schede nn. 58-59, p. 94, tavv. IX-X;
Busiri Vici 1976, pp. 42-43, figg. 10 e 18;
Fornari Schianchi s.d. [ma 1983], p. 194, fig. p. 195;
Puppi 1988a, p. 219, figg. 6-7;
Succi 1988, p. 30, fig. 12 (part.);
Salerno 1991, p. 212, fig. 62.1-62.2;
Tewes 1994a-b, schede nn. 29 e 75, pp. 138 e 190, fig. a pp. 139 e 192;
Kowalczkyk Trupiano 1995, scheda n. 75, p. 308. fig. a p. 309;
Riccomini 1997, p. XXVII
Restauri
1940 (G. Forghieri)
Mostre
Venezia 1929;
Parma 1948;
Roma 1959;
Dortmund 1994;
Venezia 1995

Rossella Cattani, in Lucia Fornari Schianchi (a cura di) Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere. Il Settecento, Franco Maria Ricci, Milano 2000.