• Titolo: Capitello con draghi e foglie d’acanto
  • Autore: Anonimo
  • Data: 1226
  • Tecnica: Altorilievo
  • Dimensioni: base sup. 40 x 48 x 48, diam. base inf. 44
  • Provenienza: Monte Oliveto (presso Castell’Arquato), monastero di Santa Maria; già Parma, Museo Archeologico
  • Inventario: GN1813
  • Genere: Scultura
  • Museo: Galleria Nazionale
  • Sezione espositiva: Antelami e il suo tempo

Il capitello, scavato al centro quando venne riutilizzato come mortaio, ha un livello inferiore formato da foglie di acanto strigilate sopra le quali si sviluppano i corpi di otto draghi alati con le orecchie appuntite, uniti a coppie dalle teste allungate sugli spigoli. Nella cornice superiore un’iscrizione reca il nome del committente, la data e, indirettamente, la sua destinazione originaria. Da essa si ricava, infatti, che il capitello fu scolpito nel 1226 e che era destinato al monastero femminile di Santa Maria di Monte Oliveto. Il monastero fu fondato nel 1223 presso la chiesa o cappella di San Donnino sulle rive del torrente Arda presso Castell’Arquato e fu affidato alle monache cistercensi provenienti dal monastero del Terzo Passo, di cui la prima badessa fu Franca, la stessa citata nell’iscrizione.
La cronaca (Flaminio da Parma 1765) e la critica, poi, contribuiscono a completare queste notizie e a definire i riferimenti culturali del lapicida. Il capitello lascia il monastero nel 1753 in occasione dei lavori di risistemazione dell’antica chiesa, anche se un primo intervento di restauro era avvenuto già nel XV secolo, quando i francescani erano subentrati alle monache. È rintracciato qualche anno dopo presso uno scalpellino di Casalmaggiore, che lo usa come mortaio; nel 1898 è acquistato a Fontanellato da Luigi Pigorini, che lo dona al Museo d’Antichità di Parma e da qui, negli anni Sessanta, passa alla Galleria Nazionale.
La cornice piatta che corre lungo i lati è rifinita nella parte superiore con un’arcatura trilobata decorata con due gigli. La figura femminile al centro ha i capelli raccolti in trecce e una corona a fascia, indossa una lunga veste trattenuta in vita e fittamente pieghettata e un mantello fermato sul petto, tiene la mano destra alzata in atto benedicente, mentre con la sinistra regge un libro. Ai suoi lati due figure più piccole sembrano reggerle il mantello; infine, alle estremità, due oranti inginocchiati tendono le mani congiunte nell’atto della preghiera.

È reso noto per la prima volta dall’Ottaviano Quintavalle (1938a), il quale individua nella cultura dell’autore sia una formazione basata sulla tradizione del romanico lombardo, soprattutto attraverso gli esempi del San Savino di Piacenza, sia l’attenzione per le opere antelamiche e, attraverso queste, per i modelli della scultura francese. Accettano questa analisi sia la Fornari Schianchi (1989) sia la Zanichelli (1990b), la quale sottolinea l’interesse del capitello proprio “come documentazione di una stratificazione culturale che fa riferimento a modelli differenti”: da un lato la citazione dell’antico mediato dalla tradizione antelamica, ben evidente nelle foglie d’acanto; dall’altro la persistenza di schemi lombardi, come mostrano i draghi dai musi uniti nello spigolo del capitello.

Diversamente da quanto è stato proposto, sembra più probabile che quell’Uberto Ferlendi citato nell’iscrizione non sia lo scultore, ma il committente; quindi l’indicazione “me fecit” si riferirebbe non all’esecutore materiale ma a chi ha sovvenzionato l’opera. Infatti in un documento del 10 agosto 1220, nel quale il vescovo di Piacenza aliena al Comune di Castell’Arquato tutti i beni e i poderi che egli possiede in quella terra, è presente il console arquatese Cacciaconte “de Ferlendis”. Sappiamo anche che prima del 1223 la carica consolare in Castell’Arquato era riservata a esponenti di famiglie locali che avevano un potere radicato in quella zona del contado piacentino, mentre solo dopo tale data i podestà castellarquatesi verranno scelti dal Comune cittadino fra le più eminenti famiglie nobiliari e cittadine. Sembra dunque che i “de Ferlendis” o Ferlendi siano un’importante famiglia proprio della zona di Castell’Arquato, ed è quindi probabile che Uberto abbia commissionato questo capitello per farne dono al monastero di Santa Maria di Monte Oliveto.

Scheda di Maria Pia Branchi tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.