- Titolo: Bucchero, porcellane, arance e limoni
- Autore: Cristoforo Munari
- Data: 1700-1730
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 63 x 51
- Provenienza: Parma, collezione Sanvitale, 1834
- Inventario: 269
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: La natura morta e Boselli
È solo apparente il disordine, un regolato disordine ovvero un ordine precario, che regna tra i frutti e gli oggetti domestici posati con finta negligenza in un angolo di terra battuta che riporta agli ambienti delle cucine e delle dispense di tradizione padana; in realtà una sapiente occulta regia organizza i soggetti in un improbabile ma bloccato equilibrio, dando loro una struttura a piramide scorciata in diagonale, con gli apici in controparte nelle due tele.
Questa costruzione simmetrica, le identiche misure, l’identità e variazione degli elementi lessicali prescelti, consente di leggere le due tele come un pendant, probabilmente di committenza Sanvitale se consideriamo nel suo complesso il gusto collezionistico che caratterizzava nel ’700 quella raccolta familiare, già ricca di un assai consistente numero di opere di Felice Boselli, uno dei maestri emiliani del genere.
Proprio Boselli che, come altri artisti dei cosiddetti generi minori praticava anche un’attività di mercante, potrebbe essere stato il tramite per l’arrivo delle due tele a Parma, eseguite dal Munari, a Firenze dal 1706 e in contatto con la Corte di Ferdinando Medici, a cavallo fra il primo e il secondo decennio del ’700 (Baldassari 1998). La restituzione attributiva al pittore reggiano, mentre nell’inventario Morini della vendita Sanvitale figuravano come Willem Heda (forse per venderli meglio), e sono poi stati riferiti da Hoogewerff ad Andrea Benedetti, spetta alla Ghidiglia Quintavalle, che inserisce a pieno titolo le due tele nella mostra monografica, la prima, dedicata al Munari nel 1964. È un lessico relativamente limitato quello che Munari attentamente impagina nelle proprie tele, che inserisce in un paradigma derivato dalla tradizione: la mandola e i frutti, alcuni personali vocaboli scelti più per le loro caratteristiche luminose, materiche e cromatiche, che per un’eventuale qualifica di suppellettili mondanamente alla moda. Ad esempio le rustiche terraglie toscane, la cui splendente vernice aranciata riflette la luce e si sposa con la cromia degli agrumi, e le fragili porcellane, vere e proprie superfici specchianti, identificate come di provenienza cinese (ma è opportuno tenere presente che già dalla fine del ’600 a Delft si copiavano le paste e i décors orientali).
Quindi la significativa presenza dei vetri, così centrali sul ripiano angolare rialzato del 263, rivela l’influenza, a fianco dell’importante eredità lombarda (da Baschenis a Boselli appunto), dell’esperienza romana e in particolare dei modi di Christian Berentz, il cui vocabolario è ricco di cristalli, coppe bicchieri e bottiglie, in preziose trasparenze. Certo che se Berentz privilegia i cristalli pieni, solidi contenitori di liquidi ambrati e di esotici vini, Munari privilegia i vuoti, e così i vetri diventano pura illusione, non sono altro che tracce luminose sullo sfondo scuro, i contorni bave dorate come fuochi fatui. Del tutto illusorio del resto è il risalto della rugosa scorza del limone o quello dei due vasetti accucciati in bilico nell’ombra, o il colore ossidato della polpa di mela, come se l’aria davvero, e il tempo, circolassero nelle sue tele. Anche le sue ciotole sono preferibilmente vuote e comunque mai ricolme, e i frutti vengono sbucciati, a esibire il pieno, regalo prezioso, dell’interno sotto il lucido involucro esteriore.
Disordine e ordine, vuoto e pieno, ombra e luce, potrei aggiungere morte e vita, la morte del disordine del vuoto e dell’ombra, la vita dell’ordine del pieno e della luce. Ecco, è proprio la luce, tagliente o soffusa, di sguincio o ricadente dall’alto, figura metaforica dello sguardo dell’uomo, a riconoscere le cose traendole dall’ombra, a dar loro un senso e un ordine, concretezza e verità, a salvare la loro fragilità, che è la stessa dell’umana esistenza, dall’angosciosa precarietà del tempo profano. È lo sguardo quieto, affettuoso e riconoscente dell’uomo che si interroga sulla durata, delle cose e del tempo, a restituire sacralità al quotidiano, a quella materia che senza quella luce e quello sguardo si rivela silente e inerte. Così la pittura si trasforma in una sorta di laica preghiera, di trepida offerta votiva, di sussurrato ringraziamento per la bellezza del mondo creato.