- Titolo: Beato Lorenzo da Brindisi
- Autore: Gaetano Callani
- Data: 1783 ca.
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 82,5 x 69
- Provenienza: Parma, chiesa dei Cappuccini
- Inventario: Inv. 91
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
Per quanto non firmato e privo di una precisa documentazione, già alla fine del ’700 il dipinto è segnalato dagli eruditi locali come opera del Callani nella chiesa dei Cappuccini; in particolare l’Affò, ripreso dallo Scarabelli Zunti, lo dice collocato nella quarta cappella a destra dell’edificio e contrapposto a un ovato di analogo soggetto del Ferrari sito nella quarta a sinistra.
In seguito alla chiusura al culto della chiesa nell’ambito della soppressione napoleonica del 1810 (l’edificio, ampiamente rimaneggiato, è oggi sede dell’Assistenza Pubblica di Parma), la tela passò nelle raccolte dell’Accademia, ove figura già dall’Inventario del 1819. In essa è raffigurato Lorenzo Russo da Brindisi (1559-1619), frate cappuccino e dottore della chiesa, famoso per la predicazione agli ebrei a Roma, come per la lotta all’eresia e la difesa dei cattolici a Praga e in Germania; raggiunse fama di santità già in vita, come attesta il curioso episodio del duca Ranuccio I Farnese che nel 1616, sapendolo gravemente ammalato a Piacenza, cercò di assicurarsi le sue spoglie in caso di morte per conservarle come preziose reliquie (cfr. A.M. da Carmignano di Brenta in Bibliotheca Sanctorum, VIII, 1967, pp. 162-179), e venne beatificato nel 1783: con ogni probabilità fu questa circostanza a determinare la commissione del dipinto al Callani, che lo eseguì pertanto durante la sua permanenza a Roma. Per quanto non si trattasse di una pala d’altare, era pur sempre un incarico di un certo prestigio, per una chiesa importante (dall’epoca farnesiana sede delle sepolture ducali) e per un ordine che già aveva chiamato a lavorare artisti di primissimo ordine quali, solo per restare al XVIII secolo, Piazzetta, Tiepolo, Pittoni. Se ne deduce la buona considerazione goduta dal Callani, che nel corso degli Anni settanta era andato progressivamente elaborando un linguaggio pittorico aggiornato, ma perfettamente consono alle esigenze della committenza ecclesiastica: liberandosi delle fluide piacevolezze di retaggio rococò era infatti approdato a meditate composizioni di grande equilibrio e nitore formale, tanto nelle solenni architetture quanto nelle eleganti figure, ancora memori nei volti e nei gesti della tradizione parmense cinquecentesca, in particolare del Correggio. Questa ricerca di un’ideale bellezza, capace di unire le istanze moderne e i valori della tradizione, capace soprattutto di esprimere in forme rinnovate gli ideali della spiritualità cristiana, messi in crisi dal razionalismo settecentesco ma profondamente sentiti dal pittore (Riccomini 1977a, p. 157), aveva raggiunto una piena formulazione nella Predica di san Liborio, dipinta fra il 1775 e il 1777 per la cappella ducale di Colorno e, a detta dello Scarabelli Zunti, ammirata dallo stesso Mengs (opera in cui la frontalità ieratica del protagonista pare quasi preludio al Napoleone imperatore di Ingres, cfr. Godi 1974, p. XXVI) o nella pala con Sant’Antonio da Padova che riceve il Bambino da san Giuseppe per la chiesa di San Lazzaro a Piacenza, del 1781.
Pur nei limiti della tipologia anche il dipinto dei Cappuccini riflette questo stile maturo: Callani vi propone la consueta iconografia del santo divinamente ispirato, ovviamente correlata al ruolo di Dottore della Chiesa di Lorenzo Russo e comune a tanta pittura settecentesca, ma lo fa con la misura e il rigore che gli sono propri, evitando effetti eccessivamente mièvre. Nella raffigurazione del volto, ad esempio, preferisce alla tradizionale espressione estatica con occhi al cielo quella di un’intensa concentrazione spirituale, manifesta nella fitta rete di rughe sulla fronte o ai lati delle labbra serrate come nello sguardo, che, pur dirigendosi oltre la tela, non incontra quello del riguardante, ma piuttosto si perde in una visione interiore. L’ambientazione è essenziale, un’architettura a volta con apertura di cielo, e all’effetto di generale sobrietà contribuisce una stesura pittorica estremamente curata per delicate velature di colore, come quasi sempre nelle opere del Callani, che sappiamo molto attento al dato tecnico e anche sperimentatore di procedimenti particolari, fra cui quello dell’uso della cera col colore (già noto agli antichi e nel secondo ’700 ampiamente dibattuto, cfr. AA.VV. 1979b, Considerazioni…). E se pare forse eccessivo parlare di “elementi ritrattistici che attenuano la sdolcinatezza del tempo” (Quintavalle 1939), è vero che la definizione precisa e nitida del volto ha un particolare carattere di verità. Certo la cromia è ancora molto settecentesca e non mancano tocchi virtuosistici nella resa delle mani, delle pagine, del Crocifisso sui volumi, sapientemente lumeggiato; questi oggetti in primo piano denotano il persistere nel Callani del gusto per il particolare decorativo, il bel tessuto come il pezzo d’argenteria, indagato però con grande attenzione al dato reale.
Del dipinto esiste in Biblioteca Palatina a Parma uno studio preparatorio a sanguigna e carboncino con tocchi di biacca (Ms. Parm. n. 3714/131): di notevole finezza esecutiva, denota il buon livello del Callani disegnatore, risultando forse ancora più intenso della stessa tela definitiva (è giudicato invece piuttosto manierato e accademico, anche se tecnicamente interessante, dalla Leoni Cicero). Per completezza ed eleganza esecutiva, attenzione al particolare, accuratezza di ombreggiature, il disegno è molto più di un semplice abbozzo, quasi opera dotata di propria autonomia, come del resto non era inconsueto nella prassi settecentesca, secondo cui studi di teste per quadri religiosi venivano talora incorniciati ed esposti (Sani). (S.C.)