- Titolo: Autoritratto con due amici
- Autore: Giuseppe Baldrighi
- Data: seconda metà del XVIII secolo ca.
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 53 x 63,3
- Provenienza: collezione Angelo Masi; in Galleria nel 1856
- Inventario: 289
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: L'Accademia
Vivace e affettuosa, giocosa e divertita come un attimo di giovinezza condiviso ridendo da amici cari: tutto questo è la deliziosa teletta, che incanta per l’immediatezza felice che la sottende e traspira da tutte le sue fibre.
Con linguaggio amicale in codice, i gesti delle mani, protagonisti della rappresentazione quanto i volti di profilo, di fronte, di tre quarti, raccontano una contiguità reciproca e scambievole. Baldrighi, sulla sinistra, sta contando, ed è arrivato a “tre”; l’amico collocato nel mezzo della tela, in gran bella vista, pare conti anch’egli “tre”; ugualmente l’accollato signore sul margine destro, che esibisce un bell’anello al mignolo e indica l’autore del dipinto.
Chissà che risate, in quel momento, che sogni, e che speranze, in quel piccolo ruotante circolo di volti e allusioni. Di alta qualità, la bella e ricca pittura, così francesizzante, alla Nattier (e non era Bonnet che scriveva a Petitot della capacità di Baldrighi di terminare un quadro di van Loo o di Nattier?), si stende morbida e soffice tra stesure di ombre vellutate e luci gonfie e turgide; gioca con ardimento sciabolando fra i ghirigori della veste da camera e lungo lo jabot; si insinua dolce nello sguardo dell’unico che guarda “in macchina”. Sola stonatura, a osservar bene, le due dita un po’ stecchite della mano inanellata, che forse hanno vissuto un qualche patimento. Ma il fascino del dipinto è forte, e il tema, così intimamente vissuto giunge da lontano, e va lontano. Giunge forse dall’arte di Raffaello, che si autoritrae in affettuosa vicinanza col proprio maestro di scherma; o di Paolo Veronese, che tra la folla delle Nozze di Canaan, al Louvre, rende musici se stesso e Tiziano, il proprio fratello Benedetto e Tintoretto…; o di Bartolomeo Passerotti con il suo doppio ritratto di musici; oppure, ancora, di van Dyck, che ferma i gesti e gli sguardi dei pittori fratelli de Wael… Va lontano, perché questo intimismo lieve ed espressivo, questo ritrarre se stessi e i propri amici, conoscerà nel secolo successivo uno svolgimento di rara consequenzialità.
Il quadro, si sa, è tanto ricordevole quanto problematico a causa della ridda di ipotesi che si sono susseguite per tentare di identificare i personaggi che in esso compaiono, ipotesi i cui differenti esiti non sortiscono comunque alcuna variante rispetto al senso dello splendido dipinto, istantanea pittorica, scena di conversazione, piena di spirito e di gioia di vivere, che ferma per sempre la piacevolezza volatile di uno stare insieme “qui e ora”. Arrivato in Galleria nel 1856 con la tradizionale attribuzione a Giuseppe Baldrighi (Ricci 1896, p. 255), pittore celebre alla Corte di Don Filippo di Borbone per l’alta qualità dei suoi ritratti, il dipinto fu ritenuto anche di differenti, contigui autori, e ad ogni mutata attribuzione variarono di concerto i nomi degli altri due rappresentati: unico dato sicuro, come – ancora – da tradizione, la presenza nel dipinto di un autoritratto (di tutto ciò dà conto la bibliografia seguente). E a ramificare vieppiù la complessità della teletta fu la presenza, in Parma, di altri due dipinti di identico soggetto e di incerta autografia (cfr. schede nn. 704 e 705), chiaramente desunti dal nostro Baldrighi, cui si aggiunse, in Ottawa, un ulteriore d’apres proveniente dalla collezione Contini Bonacossi.
Fino a oggi, in buona sintesi, questo l’andamento della vicenda critica: Pietro Martini, nel 1875, attribuendolo a Baldrighi scrive: “quadro contenente i ritratti di Baldrighi, dell’abate Giuseppe Peroni e di Callani”; Corrado Ricci, nel 1896, su tutti e tre i ritratti di Parma chiarisce: “Su questi (…) corrono due versioni. L’una dice che il Callani ritrattò il Ferrari; il Ferrari ritrattò il Baldrighi, e finalmente, questi ritrattò il Callani, l’altra dice che ognuno d’essi fece una tela identica ripetendo, di tutta sua mano, i tre ritratti. Questa versione dev’essere la vera (…)”; Quintavalle, nel 1939, dice il nostro dipinto essere di Baldrighi che ritrattò se stesso, Callani e Ferrari, ma Augusta Ghidiglia Quintavalle, nel 1956, lo dice opera del pittore svedese Roslin. Quindi, nel 1977, la vasta ricognizione sul ’700 parmense, ad opera di Eugenio Riccomini che confermando a Baldrighi il dipinto vede a sinistra Callani, nel centro Ferrari, e a destra Baldrighi medesimo. Poi la grande mostra sul ’700 a Parma (1979), in cui Lucia Fornari Schianchi, invece, individua Callani a sinistra, Baldrighi al centro, Ferrari a destra (confermando, ancora, il quadro a Baldrighi).
Ed eccoci al 1984, allorché Vittorio Natale, indagando su Pietro Melchiorre Ferrari, ritrova presso la raccolta Ortalli della Biblioteca Palatina di Parma una incisione datata 1763 che riproduce il triplice ritratto e che fu catalogata tra il 1843 e il 1860 come raffigurante Martini, Ferrari, Baldrighi. Natale aderisce a quest’ultima indicazione anche perché la ritiene la più antica e quindi la più credibile, riconosce Baldrighi a destra nel quadro, Ferrari nel centro, Martini a sinistra, e, a questo punto, attribuisce a Pietro Melchiorre Ferrari il nostro dipinto perché “la maggiore pastosità ed incisività” delle pennellate è infatti vicinissima a certi particolari della Guarigione del paralitico (e dà invece a Baldrighi il quadro di Ottawa). Infine, e siamo nel 1989, Godi e Cirillo annunciano il ritrovamento presso una collezione privata parmense di una incisione (sempre del 1763) di Pietro Antonio Martini recante secondo gli studiosi “l’identificazione manoscritta d’epoca”, quindi settecentesca, che individua nel personaggio a sinistra Giuseppe Baldrighi, in quello al centro il decoratore Rousselet e in quello a destra il pittore Vien. I due studiosi ritengono credibile l’iscrizione vergata a penna e ciò viene anche ribadito da Giuseppe Cirillo nel catalogo della mostra su Petitot, ove, a ulteriore conferma dell’identificazione di Baldrighi nel personaggio in giacca da camera e jabot si adduce un disegno della Biblioteca Palatina raffigurante un pittore, decisamente simile a quello a sinistra nel quadro, indicato come “Baldrighi” (Ms. Parm. 3716 n. 83). Di questo disegno, che però, occorre aggiungere, è sicuramente ottocentesco, colpisce e convince, in effetti, la stretta analogia con il giovane uomo a sinistra nel nostro quadro e con il Baldrighi, più anziano, che si autoritrae assieme alla moglie (cfr. scheda n. 706). In seguito all’individuazione dei due francesi, Cirillo data in modo convincente il quadro al 1753 circa, anno in cui il nostro artista aveva dimora e studio a Parigi (ove si era recato nel 1752).