- Titolo: Autoritratto
- Autore: Johann Zoffany
- Data: 1779
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: 43 x 39
- Provenienza: acquistato nel 1917
- Inventario: Inv. 1118
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Il Grand Tour
Questa tavoletta, dipinta su entrambi i lati, fu intelligentemente acquistata nel 1917, quando il suo autore era ancora pressoché ignorato da noi. Johann Zoffany (Zauffely, in realtà, ch’è di suono boemo; ma poi italianizzò e rese anche più pronunciabile il suo cognome) la dipinse, o terminò di dipingerla, il giorno in cui compiva i suoi quarantasei anni, e si trovava a Parma per eseguire i ritratti della duchessa austriaca Maria Amalia e dei suoi congiunti, da spedire alla Corte di Vienna; alla quale, da Firenze, aveva già inviato il ritratto del granduca Pietro Leopoldo con la famiglia, ottenendo così da Maria Teresa anche l’ambito titolo, che qui cita, di cavaliere e barone del Sacro Romano Impero.
Era, come si vede anche da questo autoritratto, un personaggio non poco singolare. Tentò, ricordo, di imbarcarsi su uno dei vascelli del capitano Cook inviati in giro per gli oceani, senza riuscirvi per poco; ma giunse per suo conto fino a Calcutta, ove lasciò diverse opere, in una delle quali compare egli stesso. Doveva avere non poca considerazione della propria persona, e del proprio ingegno: e infatti si ritrasse più volte, in varie guise, e talora accanto a personaggi importanti; la sua figura, con in mano la celebre Madonna di Raffaello proprio allora acquistata da Lord Cooper (e finita a Washington) compare anche nel suo più celebre dipinto, e cioè la Tribuna degli Uffizi, eseguito per la regina d’Inghilterra (ma tedesca di nascita, come lui) Carlotta, moglie di Giorgio III, in un lungo arco di tempo, fra il 1772 e il 1778. Ed era singolare anche per altri versi: la sua moglie tedesca se ne tornò in patria perché non sopportava il suo carattere e lui, alla vigilia del suo imbarco per Firenze, mise incinta una ragazzina inglese di quattordici anni, cui non rimase che infilarsi di soppiatto sul veliero per seguirlo nel viaggio. Insomma, il lato per così dire religioso e devoto di questa tavoletta sembra fatto apposta per mostrare il rovescio della medaglia dall’altra parte. Il lato devoto, di certo, è anche il meno stimolante, come di regola avviene: è correggesco quanto basta, secondo i suggerimenti del Mengs, che fu a Roma uno dei suoi maestri; e altrettanto raffaellesco (la posa di Madonna e Bambino ripete, in rovescio, quella della Madonna d’Orléans di Chantilly); e vi s’avvertono ancora echi del Masucci, che fu suo primo vero maestro, e assonanze col gusto di Angelica Kauffmann, che teneva la scena a Londra, che di certo conosceva, e con la quale aveva in comune anche l’idioma natale.
L’altro lato, e cioè l’Autoritratto, suscita curiosità; anche di più di quanto avviene con i pur insoliti autoritratti delle raccolte statali fiorentine (due, del 1775 e 1776) e di quello, non poco strano, dipinto nel 1776 per l’Accademia Etrusca di Cortona. È senza dubbio, a mio avviso, l’autoritratto più intimo, più vero, più toccante che si potesse vedere, allora, in Italia; e vi s’avverte un’aria di confessione da letteratura romantica, tanto da anticipare di trent’anni la desolazione bohémienne di Tommaso Minardi nella sua stanzetta, col pagliericcio e il solito teschio premonitore. Il teschio c’è anche qui, poggiato su una mensola dello studio, accanto a un mazzo di carte da gioco, a una bottiglia di vino, a un bicchiere mezzo pieno.
Sono, s’intende, trasparenti allusioni alla vanità, alla fragilità della vita umana che perde il suo poco tempo fra i piaceri. Però è del tutto inconsueto che un pittore ci faccia vedere quali fossero i piaceri che la sua carne amava di più, e che la sua anima di cattolico (ma suddito anglicano, e prendendosi spesso gioco delle Scritture, addirittura, come testimoniano i contemporanei) di più temeva: sotto quella mensola, infatti, è attaccata al muro una stampa della Venere di Urbino di Tiziano (che Zoffany aveva posto al centro della sua Rotonda degli Uffizi), in cui il pube è celato da uno strappo; e poi compare, appeso a un chiodo, un rosario; e accanto, ugualmente appeso, c’è un paio di quegli arnesi, già allora in uso pur in assenza di gomma da lattice, che sono citati in ogni romanzo libertino inglese o francese dell’epoca, e che gli inglesi chiamavano già condom. Davanti a questa contrastante attrezzeria Zoffany s’è ritratto con la capigliatura in disordine, lo sguardo perso, mentre s’infila un saio da francescano. Alle sue spalle, poggiata su un ripiano, sta la tavolozza coi pennelli: i semplici strumenti con cui l’artista costruisce la propria grandezza, destinata a durare nel tempo, e a sconfiggere così la minaccia che quel teschio rammenta.