Ottocento a Parma

Ottocento a Parma2021-03-12T18:31:36+01:00

1. La Rocchetta Viscontea e Maria Luigia

La Rocchetta Viscontea costituisce il nucleo più antico della Pilotta. Costruita tra il XIV e il XV secolo, fu utilizzata come prigione e poi come abitazione per i funzionari della corte. Nella prima metà dell’Ottocento fu in parte concessa all’Accademia di Belle Arti, che potè ampliarsi oltre il Salone che aveva in uso dalla metà del Settecento, esponendo nei suoi ambienti le pale del Correggio mai restituite ai loro altari dopo le spoliazioni napoleoniche ma qui collocate a uso e studio degli allievi. In perfetta continuità con il Salone, le sue sale ospitano oggi i capolavori ottocenteschi della produzione parmense: dalla pittura mitologica, di storia e religiosa, fino alla ritrattistica e alla pittura di paesaggio.

In questa sala si trovano alcune delle opere dovute al mecenatismo di Maria Luigia d’Asburgo, moglie di Napoleone, diventata sovrana di Parma, Piacenza e Gustalla nel 1814. Grande sostenitrice delle arti, la duchessa si espresse a cavallo tra un retrospettivo gusto neoclassico di ascendenza ancora imperiale e il nascente gusto romantico per i soggetti storici e per la natura.
Appartiene al primo filone l’opera di Francesco Scaramuzza qui rappresentata da una monumentale Silvia e Aminta, inviata nel 1862 a illustrare Parma all’Esposizione Universale di Londra.
Più accondiscendenti al gusto romantico sono i due magnifici Rebel acquistati direttamente da Maria Luigia, le due monumentali tele di Giuseppe Molteni, altro pittore ‘’ufficiale’’ del ducato luigino mentre la piccola opera di Ferdinando Storelli rappresenta l’estetica di quella che la duchessa volle una longeva e significativa scuola parmense di pittura di paesaggio.

Crediti Fotografici
ph. Giovanni Hänninen

2. Le committenze a soggetto religioso

Uno degli ambiti in cui si espresse maggiormente la committenza luigina fu senz’altro quello della pittura religiosa, improntata a una concezione paternalista dello Stato. Le iconografie misericordiose, infatti, o celebranti le attività di elemosina o le elargizioni sovrane, si moltiplicarono a dismisura e videro attivi gli artisti ufficiali della corte.
In questa sala, il San Giovanni Battista di Francesco Scaramuzza e il David con la testa di Golia di Enrico Barbieri sono carichi di riferimenti retrospettivi, nei modi tipici della pittura accademica del tempo in cui la produzione contemporanea è una riattualizzazione degli insuperati modelli nazionali dell’antico.
Viene riproposta, con le tre pale della parete settentrionale la prima cappella a destra della Chiesa di San Ludovico, già adattata da Ferdinando di Borbone a tempio ducale, e arricchito di queste opere nel 1840 su commissione di Maria Luigia. Nel complesso, in tutte le tele qui esposte, spira il riferimento ai maestri della pittura emiliana in una chiave “nazionalistica” di esaltazione del genio parmigiano.
Si avverte ovunque la lezione classicista e intrisa di pathos del Correggio, esaltato come si vedrà nelle sale attigue quale maestro capostipite della scuola, mediata però attraverso le rivisitazioni dei Carracci e del Guercino.

3. Il mito borghese dell’artista

Lo studio del Correggio e degli altri campioni della scuola emiliana venne stimolato da un cambiamento epocale dello statuto dell’opera d’arte e dell’artista. Se fino a quel momento il lavoro creativo era stato connesso a un insieme di precetti e da una precisa gerarchia stabilita dal potere sovrano, lo sviluppo della società borghese aprì spazi di autonomia in cui si inserì una maggiore permeabilità tra generi e soggetti, da cui emerse la figura del genio artistico, avanguardia delle capacità produttive dell’industria. In questa sala sono dunque esibite, dopo i capolavori del Correggio, le conseguenze del loro studio e della loro rielaborazione.
Alcuni tra i maggiori protagonisti delle produzioni accademiche vengono quindi rappresentati da opere significative del loro corpus, precedute da un autoritratto – genere in voga di cui le collezioni della Pilotta sono estremamente ricche – che indica il senso profondo della svolta avvenuta e del nuovo statuto conquistato. Alla fine della serie, i capolavori di Giorgio Scherer stabiliscono un legame diretto tra il mito e l’universo intellettuale dell’artista mentre i lavori di Cletofonte Preti esibiscono l’emancipazione delle forme della vita quotidiana. In tutti si avverte la lezione rinascimentale emiliana, rielaborata nel contesto nazionale di un ducato ormai borghese.

4. L’opera d’arte e la sua riproducibilità tecnica

La figura dell’artista, che servì da avanguardia per un’inventiva tutta borghese, simboleggiò dal secondo Ottocento in poi l’attitudine a trasformare la realtà di ingegneri, architetti, urbanisti, tecnici industriali, imprenditori e finanzieri, tanto più con il generalizzarsi di forme di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Il principio per cui tutto il reale si troverebbe racchiuso in potenza nelle leggi universali della ragione fece il resto e man mano che l’occidente andò scoprendo e sfruttando il mondo per i suoi interessi, la sua estetica ridusse l’Altro a una declinazione esotica del sè.
Nella sua celebre monografia su Correggio, il tedesco Julius Meyer descrisse la vita dell’artista come l’affermazione di un genio superlativo destinato fatalmente a conquistare con le sue creazioni le botteghe e le accademie di tutta Europa per imporvi il suo stile universale, cui contribuì la diffusione dell’opera attraverso incisioni a stampa, riproducibili in serie e facilmente commercializzabili. Nel contempo lo sviluppo di nuove forme di riproduzione portò a sostituire le tradizionali tecniche calcografiche, tra cui la litografia inventata intorno al 1799 da Aloys Senefelder, e ancor più la fotografia, le cui prime sperimentazioni iniziarono a diffondersi in Italia dal 1839, proprio quando Toschi dava inizio alla mirabile impresa dei « Freschi » di Correggio.

5. Colonialismo, Orientalismo e Globalizzazione

La competizione industriale tra nazioni, in cui tentò di distinguersi anche il piccolo ducato di Parma Piacenza e Guastalla, inventando le ragioni di una identità tutta emiliana, produsse un’apertura foriera di progressi economici ma anche di drammi epocali ancora in corso. L’incontro con l’Altro stravolse i canoni artistici e produsse un superamento rapidissimo dei generi accademici, spazzati via dalla scoperta della varietà del mondo.
Quest’epoca, da cui nacquero i principi e i nodi tragici della contemporaneità, è rappresentata qui nel suo atto di nascita all’interno della cultura accademica parmigiana con l’emancipazione della pittura di paesaggio, focalizzata ormai sulle forze – naturali e quindi scientifiche – che caratterizzano la universale vastità del reale.
Le spettacolari tele di Alberto Pasini, come i diaporama del tempo, riproducono in chiave immersiva i paesaggi esotici in cui si svolgeva la vita dei popoli più remoti. Altri trovano contrappunto nell’opera di Cecrope Barilli alla ricerca di un esotico nascosto nel primitivo di classi popolari dedite a forme di esistenza analoghe a quelle delle terre colonizzate. Le Rovine di un tempio nel deserto del Pasini, perciò, chiudono la serie con un orientalismo contro cui si scaglierà il pensiero post-coloniale del Novecento.

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